I GRANDI NEMICI DI ROMA – ANNIBALE (Terza parte: dagli “ozi di Capua” alla Battaglia del Metauro).

Dopo Canne, iniziò una lunga guerra di posizione nel sud Italia, nella quale le legioni romane evitarono nuove battaglie campali, limitandosi ad osservare e contenere l’armata cartaginese. Poi, la svolta del Metauro.

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Annibale a Capua.

Una sconfitta di una portata così catastrofica per Roma come quella subita a Canne avrebbe dovuto causare, secondo i piani di Annibale, una totale defezione degli alleati italici, riducendo la Repubblica ad un piccolo staterello senza più alcuna influenza politica. Ma così non fu. A parte le città dell’Italia meridionale, che tradirono e passarono completamente sotto il vincente di turno, tutta l’Italia centrale, il nerbo della Lega Italica, si strinse intorno a Roma, permettendo alla Repubblica di resistere e creare nuove legioni, che arrivarono all’incredibile numero di 25!

Annibale, intanto, si diresse verso Capua che, spalancandogli felice e scodinzolante le porte, divenne il suo quartier generale per le sue operazioni nel sud. Operazioni che si trasformarono presto in una lunga e logorante guerra di posizione. Infatti, i Romani, tornati alla strategia prudente di Quinto Fabio Massimo, si guardarono bene dall’affrontare il Cartaginese in campo aperto, ma si limitarono ad osservarlo e a contenerlo, confinandolo di fatto in un’area circoscritta, per quanto comunque enorme. Questo periodo è passato alla Storia come “gli ozi di Capua”, fatto di mollezze e pigrizia. Ma la tradizione che vuole i Cartaginesi trasformati da invincibili guerrieri a smidollati debosciati è smentita dalle successive sconfitte che il Barcide infligge agli eserciti romani che incautamente gli muovono battaglia: ai Campi Veteres, al Silaro e a Herdonia, senza dimenticare la paura che inflisse agli abitanti di Roma quando, per alleggerire l’assedio che gli eserciti consolari posero a Capua, marciò verso l’Urbe accampandosi a soli 3 km dalla città!

Per dare la scossa ad una guerra che non evolveva dinamicamente, il Senato cartaginese si decise finalmente a inviare un’armata comandata dal fratello di Annibale, Asdrubale. Partendo dalla Spagna ed eludendo l’esercito di Scipione che stava conducendo una campagna proprio nella penisola iberica, Asdrubale valicò le Alpi con l’intento di riunire la sua armata con quella del fratello. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stata una catastrofe per Roma. Per questo fu inviato un esercito consolare con lo scopo di impedire tale ricongiungimento. I Cartaginesi furono intercettati presso il fiume Metauro, nelle Marche, e si compì il miracolo: per la prima volta i Romani ottennero una grande vittoria su un esercito cartaginese, che venne interamente distrutto. La testa di Asdrubale venne gettata, macabro trofeo, nel campo di Annibale.

La Battaglia del Metauro, anche se poco nota, rappresenta un punto di svolta cruciale per la Storia dell’umanità, e in questo nuovo episodio del lungo articolo dedicato ad Annibale, la andremo ad analizzare punto per punto, sempre con il supporto di mappe e contenuti mediatici. Direi quindi di cominciare la terza parte dei Grandi nemici di Roma, per la Rubrica “La Stele di Rosetta”, pubblicato in esclusiva per IQ. Buona lettura.

La Battaglia del Metauro.

INDICE DEI CONTENUTI:

IL DOPO-CANNE E GLI EFFETTI SUL MONDO GRECO E MACEDONE

IL NUOVO QUARTIER GENERALE: CAPUA

LA GUERRA DI POSIZIONE NEL SUD ITALIA

GLI “OZI DI CAPUA”, UN MITO DA SFATARE?

GLI ASSEDI DI CAPUA

HANNIBAL AD PORTAS!

LA RESA DI CAPUA

LE CONSEGUENZE DELLA CADUTA DI CAPUA

UNA GUERRA DI POSIZIONE

LA SVOLTA: LA BATTAGLIA DEL METAURO

IL BILANCIO DELLA BATTAGLIA DEL METAURO

LA TESTA DI ASDRUBALE

UNA SVOLTA STORICA

ANNIBALE È BLOCCATO

SI VOLTA PAGINA

IL DOPO-CANNE E GLI EFFETTI SUL MONDO GRECO E MACEDONE

Come abbiamo visto nel precedente articolo, dopo la sconfitta di Canne i confederati dell’Italia meridionale (Capua, Taranto, Lucania e il Bruzio) passarono in buona parte ai Cartaginesi, ma gli alleati dell’Italia centrale, il nerbo della lega, rimasero fedeli a Roma, mentre altri si mostrarono esitanti ed opportunisti.

I Romani non cercarono più una battaglia campale ma tornarono alle tattiche di logoramento di Quinto Fabio Massimo e dispiegarono sul campo un numero sempre più elevato di legioni.

Campagna di Annibale in Campania 216 a.C. dopo la battaglia di Canne.

Gli effetti della vittoria di Annibale si manifestarono anche nel mondo greco, in Macedonia e in Sicilia. Il re Filippo di Macedonia, che aveva già assalito i Romani in Illiria, fece ora alleanza con Annibale; questa nuova guerra non poteva non tenere per lo meno impegnate le truppe romane nella penisola balcanica e distrarle dall’Italia.
Ed in Sicilia, dopo la morte del re Gerone, Siracusa defezionò da Roma e pure essa si alleò coi Cartaginesi.

La situazione a quel punto parve delinearsi così favorevole ad Annibale da metterlo in grado di porre fine alla guerra in Italia, e il raggiungimento di questo scopo sembrava possibile, in quanto Annibale non mirava alla distruzione dello Stato romano, cosa che probabilmente non aveva mai ritenuta possibile, ma soltanto togliere a Roma il grado di grande potenza.
Infatti, ritornato libero il territorio celtico dell’Italia superiore, staccata l’Italia meridionale dalla confederazione romana, Roma avrebbe potuto continuare a mantenere la sua posizione dell’Italia centrale, ma una grande potenza non sarebbe più stata. Per poter costringere Roma alla pace, Annibale avrebbe avuto bisogno di rinforzi di truppe che non gli potevano arrivare se non dalla Spagna.

IL NUOVO QUARTIER GENERALE: CAPUA

L’anfiteatro di Capua, oggi Santa Maria Capua Vetere.

Dopo la battaglia di Canne l’evento più importante della guerra in Italia fu l’alleanza di Annibale con Capua, allora la seconda maggior città d’Italia dopo Roma e prima per ricchezza, dove l’esercito cartaginese trascorse l’inverno del 216-215 a.C., avendo finalmente la possibilità di riposare dopo tre anni di continui combattimenti. Capua non era una città qualsiasi, bensì la più importante d’Italia dopo Roma, e Annibale la utilizzò come base nella penisola.

Capua, una lunga storia
Da non confondersi con l’attuale Capua (anticamente chiamata Casilinum), è stata una città sorta nel IX secolo a.C. sul luogo dell’attuale comune campano di Santa Maria Capua Vetere il cui territorio era abitato in origine da popolazioni di stirpe ausonia, fu città etrusca, osca e infine romana. Si trovava sulla Via Appia ed era la più importante città della zona, considerata una delle più grandi dell’Italia antica.
La città subì, nel corso del V secolo a.C. circa, una profonda ristrutturazione che le diede un nuovo assetto urbano sotto l’impulso della presenza dominante etrusca. Nel corso del V sec. a.C. le popolazioni di lingua osca delle zone interne della Campania, spinte dalle prospettive economiche positive offerte dalla città, vi trovano posto come manodopera servile, in un primo tempo sottoposta all’elemento etrusco dominante, che nel 438 a.C. concesse loro il diritto di cittadinanza.

Oncia proveniente da Capua. Busto di Diana, arco e faretra sopra la spalla sinistra. a destra cinghiale; in alto punto (indicazione di valore). In esergo  (KAPU), in alfabeto osco.

Con il declino etrusco però (alla fine del IV secolo a.C.), le tribù osche raggiunsero una posizione di predominio, prendendo Capua nel 425 e successivamente Nola e la colonia greca di Posidonia (rinominata poi Paestum). Capua si pose così in quest’epoca a capo di una lega campana.

Nel IV secolo a.C., quando era probabilmente la più grande città d’Italia, divenne oggetto delle mire dei Sanniti che la posero sotto assedio, e contestualmente venne coinvolta nel processo di espansione di Roma: Capua, infatti, inviò un’ambasceria ai romani chiedendone la protezione, ma il Senato romano, che aveva in precedenza stipulato un trattato di non belligeranza con i Sanniti, fu costretto a respingere tale proposta.
Gli ambasciatori della città campana, mossi dalla disperazione, decisero allora di consegnare l’intera città, i suoi abitanti, i campi, gli averi e ogni loro cosa, nelle mani di Roma (deditio), in modo da costringerla ad impegnarsi moralmente nella sua difesa dall’aggressore sannita. In questo modo la città diventava romana e obbligava Roma ad accettare di intervenire in sua difesa, dando inizio alla prima guerra sannita. Sconfitta nel conflitto iniziato nel 343 a.C., nel 338 a.C. decide di allearsi con Roma ottenendo il rango di civitas sine suffragio.

Nel corso del III sec. a.C. la città faceva capo alla tribù Falerna, rimanendo fedele a Roma, alla quale dal 312 a.C. fu messa in collegamento diretto tramite la Via Appia. A lungo riluttante al dominio romano, poté tuttavia conservare le proprie istituzioni, la propria lingua e i propri costumi ma sempre sotto la soggezione capitolina, cosicché in seguito alla sconfitta di Canne la fazione popolare inclinò verso Annibale offrendo rifugio e rifornimenti alle sue truppe nel 213-211 a.C.

Una ricostruzione dell’Anfiteatro di Capua. Fonte: crono.news.

I termini dell’alleanza con Annibale
Livio riferisce che la città venne consegnata al condottiero cartaginese grazie alla trattativa messa in atto da Pacuvio Calavio, un nobile capuano, il quale teneva sottomesso a sé ed alla plebe, il senato cittadino. Le condizioni del trattato sembra fossero le seguenti:

  • nessun magistrato militare o civile cartaginese avrebbe avuto alcun diritto su di un cittadino campano;
  • nessun cittadino campano era obbligato a fare il servizio militare o potesse esercitare un ufficio contro la sua volontà;
  • Capua continuava a conservare i propri magistrati e le sue leggi;
  • Annibale consegnava ai Campani trecento prigionieri romani, per permettere loro di effettuare uno scambio con quei cavalieri campani che militavano in Sicilia.

I cittadini campani poi compirono altre azioni di loro iniziativa, come quella di arrestare i prefetti romani degli alleati, oltre ad alcuni cittadini romani, e col pretesto di tenerli sotto custodia, li chiusero nei bagni. A causa del calore asfissiante, morirono tutti in modo atroce. Pochi furono quelli che si opposero all’alleanza campana con Annibale, tra questi ricordiamo Decio Magio, il quale poco dopo venne mandato in esilio
Annibale convocò, quindi, il senato cittadino, lo ringraziò per aver anteposto la sua amicizia all’alleanza con i Romani e promise loro che, una volta terminata la guerra, Capua sarebbe stata a capo dell’Italia e che anche i Romani avrebbero ricevuto dalla stessa nuove leggi.

LA GUERRA DI POSIZIONE NEL SUD ITALIA

Annibale dovette rinunciare a grandi manovre offensive, cercando di consolidare la sua posizione nel sud Italia, assediando e conquistando diverse città, come Casilinum, Arpi, Herdonia, Benevento, una parte di Tarentum (la fortezza, nella zona del porto, rimase però nelle mani di Roma) e Crotone. Purtroppo per lui non riuscì a espugnare le principali fortezze romane, come Napoli, Nuceria o Salerno.
Inoltre, dovette affrontare la strategia di Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore, che seguiva il nemico senza accettare lo scontro diretto. Annibale non riuscì a provocare una battaglia decisiva, né a impedire ai Romani di recuperare terreno e alleati.

Annibale cercò inizialmente di sfruttare la grande vittoria di Canne; inviò a Cartagine il fratello Magone per illustrare i brillanti successi raggiunti e richiedere rinforzi, ma i dirigenti della città, preoccupati per la situazione in Spagna (dove i Romani stavano conducendo con energia un’efficace campagna militare), si limitarono a inviare un piccolo contingente di cavalleria.
Il condottiero cartaginese nel 215 a.C. tentò di estendere il suo dominio in Italia meridionale ma subì alcuni insuccessi nel tentativo fallito di occupare Nola difesa dal tenace Marco Claudio Marcello, pretore in carica, soprannominato poi “la spada di Roma”.

GLI “OZI DI CAPUA”, UN MITO DA SFATARE?

Gli “Ozi di Capua” in una “castigata” immagine generata dall’AI.

Impossibile, a questo punto, non aprire una parentesi su quel periodo che la storiografia tradizionale (studiata anche in gioventù sui banchi di scuola) definisce, in maniera palesemente dispregiativa, “gli ozi di Capua”.

Tito Livio racconta che il comandante cartaginese tenne nelle case della città campana le truppe, per la maggior parte dell’inverno. L’esercito cartaginese che spesso e a lungo si era rinvigorito contro ogni disagio umano, non era abituato agli agi della vita cittadina. E fu così che:
“Questi, che nessuna forza nemica aveva fino ad allora vinto, furono corrotti dall’eccessiva comodità e dai piaceri tanto maggiormente, in quanto erano nuovi ai piaceri, ed ora si trovavano immersi in modo sfrenato. Infatti, il sonno, il vino, i banchetti, le prostitute, i bagni, l’ozio, che con l’abitudine si faceva sempre più dolce, fiaccarono talmente tanto il corpo e l’animo dei soldati cartaginesi, che da quel momento in poi, vennero difesi più dalla fama delle vittorie passate che dal loro valore presente.” (Livio, XXIII, 18.11-12.)

Livio critica la scelta di aver trascorso l’inverno a Capua, poiché ritiene che l’esercito cartaginese non ottenne mai più l’antica disciplina. Essi rimasero impigliati in tresche con donne locali. Altri, una volta riprese le marce e le numerose fatiche militari, si sentirono mancare le forze fisiche e psicologiche, quasi fossero tornati ad essere delle semplici reclute. Furono poi molti a disertare per poter far ritorno a Capua, senza aver ottenuto alcuna licenza.

Ma non tutti sono d’accordo
Questa interpretazione tradizionale peraltro non trova riscontro in Polibio ed è stata fortemente messa in dubbio dalla storiografia moderna che la ritiene tendenziosa e sostanzialmente errata; in particolare si è evidenziato come anche dopo l’inverno di riposo a Capua, Annibale e il suo esercito dimostrarono la loro superiorità e furono in grado per altri dieci anni di rimanere in campo in Italia senza subire reali sconfitte e senza che gli eserciti romani riuscissero a cacciarli dalla penisola. Come esempio, possiamo citare:

1) la Battaglia dei Campi Veteres, dove un reparto romano di fanteria leggera fu sconfitto dall’esercito cartaginese e nel quale perse la vita il proconsole Tiberio Sempronio Gracco;
2) la Battaglia del Silaro combattuta nel 212 a.C. fra gli eserciti di Annibale e del centurione romano, Marco Centenio Penula, a cui era stato affidato il comando di una nuova armata. I cartaginesi uscirono vittoriosi, distruggendo l’intero esercito romano, formato da 8 000 uomini;
3) la Battaglia di Herdonia (attuale Ordona, Foggia) tra l’esercito cartaginese di Annibale e l’esercito romano guidato dal pretore Gneo Fulvio Flacco: l’esercito romano fu completamente annientato (dei 18.000 soldati romani ne sopravvissero solo poco più di 2 000) cancellandone la presenza in Apulia per diverso tempo.

Campagna di Annibale in Campania nel 212 a.C.

Le affermazioni di Livio affermazioni vennero contestate anche dallo storico italiano, Gaetano De Sanctis, il quale attribuì la riscossa romana, non tanto al fatto che i Cartaginesi si rilassarono con i famosi “ozi capuani”, ma alla tenacia e disciplina delle armate romane.

GLI ASSEDI DI CAPUA

Nel 212 e nel 211 a.C. Capua subì due lunghi assedi da parte dei Romani, che costrinsero Annibale a compiere un’azione clamorosa.

L’assedio del 212 a.C.
Nel 212 a.C. il centro delle operazioni divenne Capua dove i Romani concentrarono sei legioni per assediare e riconquistare la città. I consoli di quell’anno erano Q. Fulvio Flacco e Appio Claudio Pulcro.
“Così intorno alla città vennero erette tre tende pretorie; tre eserciti, avendo iniziato da tre postazioni differenti le azioni di guerra, si preparavano a circondare la città di Capua con un fossato ed un vallo, innalzando a brevi intervalli dei forti e combattendo in diversi punti contemporaneamente, mentre i Campani cercavano di impedire loro di portare a termine le opere di assedio. Alla fine, i Campani si ritirarono entro le porte e le mura”. (Livio, XXV, 22.8-9.)

L’assedio di Capua del 212 a.C.

Appiano di Alessandria aggiunge che la distanza tra le mura della città e la prima circonvallazione romana, quella più interna, fosse di circa 2 stadi (pari a 370 metri circa). Contemporaneamente i Campani inviarono dei messi ad Annibale per protestare contro l’abbandono della loro città, supplicandolo di aiutarli. La situazione strategica diventava sempre più difficile per Annibale; ormai sei legioni romane si erano concentrate sotto il comando dei due consoli intorno a Capua, che si trovò assediata e con gravi carenze di approvvigionamento.

La situazione del cartaginese divenne più difficile. Annibale continuò tuttavia a battersi coraggiosamente e raggiunse, come abbiamo visto, altre vittorie locali; dall’Apulia ritornò in Campania in soccorso di Capua; il proconsole Tiberio Sempronio Gracco (il padre dei Gracchi, i “gioielli di Cornelia”) venne ucciso in un agguato, due formazioni legionarie romane furono distrutte nella battaglia del Silaro e nella prima battaglia di Herdonia.
Giunta ormai la fine dell’anno, il Senato romano deliberò che il pretore Publio Cornelio Silla inviasse a Capua ai consoli una lettera, dove si diceva che, fino a quando Annibale fosse stato assente e intorno a Capua non vi fosse nulla di importante da fare, uno di loro raggiungesse Roma, per procedere all’elezione dei nuovi magistrati. Ricevuta la lettera, i consoli decisero che fosse Appio Claudio a radunare i Comizi, mentre Fulvio manteneva l’assedio presso Capua.

L’assedio del 211 a.C.
Nel 211 a.C. i Romani, in assenza di Annibale, ritornarono ad assediare Capua la cui situazione divenne drammatica. A Quinto Fulvio e Appio Claudio (consoli del 212 a.C.), fu prorogato il comando come proconsoli nel (211 a.C.) e furono assegnati gli eserciti già in loro possesso. Ricevettero, quindi, l’ordine di non allontanarsi dall’assedio di Capua prima di aver conquistato la città. I Romani, seppure sdegnati dal comportamento della città campana, ritenevano che Capua, città così nobile e potente, avesse trascinato con la sua defezione troppe altre popolazioni, e che qualora fosse stata riconquistata, avrebbe costretto le altre città a rispettare l’antico dominio di Roma.

L’assedio di Capua del 211 a.C.

E mentre questa era la situazione attorno a Capua, Annibale era incerto su da farsi. Doveva infatti decidere se impadronirsi della rocca di Taranto (ancora saldamente in mano romana), oppure difendere Capua. Alla fine, prevalse quest’ultimo pensiero, verso la quale egli vedeva un interesse catalizzatore da parte non solo suo ma anche dei tanti alleati che si erano schierati dalla parte dei Cartaginesi. Lasciata nel Bruzio la maggior parte dei bagagli, insieme alla fanteria pesante, il comandante cartaginese accompagnato da un reparto scelto di fanti e cavalieri oltreché da 33 elefanti, si diresse verso la Campania. Giunto in prossimità della città si accampò in una vallata nascosta dietro il Monte Tifata, dopo essersi in precedenza impadronito della fortezza di Calatia.

Secondo la versione di Tito Livio, gli scontri davanti alla città di Capua non furono di poco conto. Vi fu una vera e propria sanguinosa battaglia. L’assalto venne condotto contemporaneamente da Annibale lungo il fronte esterno, dai Campani e dal presidio cartaginese posto sotto il comando di Bostare e Annone, lungo il fronte interno.

Signifero Romano by Serhii Popovichenko.

La battaglia iniziò con il clamore e il tumulto dei soldati schierati, oltre a quello prodotto dalla moltitudine della popolazione campana posta sulle mura cittadine, intenta a battere oggetti di bronzo.

Intanto il legatus Marco Atilio Regolo cominciò ad assalire la coorte ispanica portando con sé il signum del primo manipolo dei principes della Legio VI, mentre gli altri due legati, Lucio Porcio Licino e Tito Popilio, che avevano il comando degli accampamenti, stavano combattendo con grande foga in prossimità del vallum, riuscendo ad uccidere gli elefanti cartaginesi che avevano cercato di oltrepassarlo. I corpi degli animali erano stati abbattuti proprio nel mezzo del fossato, andando a costituire una specie di passaggio naturale, quasi il nemico avesse costruito un terrapieno o un ponte per oltrepassare l’ostacolo. E così sopra i corpi dei pachidermi uccisi infuriò una tremenda mischia. Dall’altra parte del campo i Campani e il presidio dei Cartaginesi erano stati respinti dall’armata romana, e si combatteva presso la porta della città che portava al Volturno.

Annibale, avendo assistito alla strage della sua coorte ispanica ed alla strenua difesa dell’accampamento da parte dei Romani, preferì ritirarsi con la fanteria mentre la cavalleria ne proteggeva le spalle. Secondo quanto tramanda Livio, sulla base dei dati dallo stesso raccolti nei racconti di precedenti storici, caddero 8.000 soldati di Annibale e 3.000 Campani; vennero inoltre sottratte ai Cartaginesi 15 insegne e 18 ai Campani.

“In qualunque modo sia cominciata o terminata, questa fu l’ultima battaglia prima della resa di Capua”

(Livio, XXVI, 6.13.)

HANNIBAL AD PORTAS!

Annibale era insoddisfatto della situazione di stallo che si era andata così a crearsi, poiché non riusciva né a penetrare all’interno delle mura della città sua alleate di Capua, e neppure a provocare a battaglia i Romani. La riflessione che illustra Polibio dà ragione ai Romani, i quali, in una tattica attendista, memori delle pesanti sconfitte subite in battaglie campali, preferivano trincerarsi intorno alla città campana, e quando necessario, muoversi seguendo le armate cartaginesi parallelamente, sempre in zone montane, mai in pianura, non concedendo più al nemico il vantaggio della miglior cavalleria in campo aperto.

Il condottiero cartaginese, temendo che in quella posizione potesse trovarsi intrappolato dall’arrivo dei nuovi consoli, che lo avrebbero così tagliato fuori dai necessari rifornimenti, giunse alla conclusione che era impossibile sbloccare un simile assedio con un attacco di forza. La soluzione che egli escogitò fu quella di marciare in modo rapido e inaspettato contro Roma stessa, “che era il centro della guerra“, provocando negli abitanti un tale spavento, da indurre Appio Claudio a sbloccare l’assedio e correre in aiuto della patria, oppure dividere il proprio esercito, nel qual caso sia le forze inviate a Roma in aiuto, sia quelle lasciate a Capua sarebbero state facilmente battibili.

“[…] il desiderio di una tale impresa non lo aveva mai abbandonato. […] Annibale non si nascondeva dall’essersi lasciato sfuggire l’occasione dopo la battaglia di Canne”.

(Livio, XXVI, 7.3.)
Marcia di Annibale su Roma e del proconsole Fulvio Flacco (211 a.C.)

Secondo quanto racconta Polibio, Annibale attraversò il Sannio con marce rapide, mentre a Roma ancora stavano pensando all’assedio di Capua. Sempre senza farsi scorgere, superò l’Aniene e pose il proprio accampamento a non più di 3 km dalla città di Roma!
L’intento del Cartaginese era quello di alleggerire la pressione romana su Capua, provocando il panico nell’Urbe.

E panico fu. Tra la popolazione serpeggiò un profondo turbamento ed un immane spavento, poiché la notizia risultava tanto improvvisa ed inaspettata, considerando che mai prima d’ora il condottiero cartaginese si era avvicinato così tanto alla città. Vi era anche il sospetto da parte degli abitanti di Roma che le legioni fossero state distrutte a Capua. Gli uomini allora cominciarono ad occupare le mura, mentre le donne giravano nei templi cittadini, supplicando gli dèi e pulendo i pavimenti dei luoghi sacri con i loro capelli: pratica comune nell’imminenza di un grave pericolo. Vennero posti dei presidi sull’Arx e sul Campidoglio, intorno alla città e persino sul monte Albano e sulla rocca di Aefula. Poi finalmente giunse la notizia che anche il proconsole Fulvio Flacco era partito da Capua a marce forzate e stava raggiungendo Roma per difenderla.

The British Library – Porta Collina in un’incisione del 1820.

Il Senato allora decretò che l’autorità del suo comando fosse pari a quella dei consoli, affinché non gli fosse tolto il massimo potere militare.
Flacco entrò quindi a Roma dalla porta Capena e passò nel mezzo della città attraverso il quartiere delle Carinae e dirigendosi poi all’Esquilino. Da questo mons uscì dalle mura romane e pose il campo tra la Porta Esquilina e la Porta Collina, nella parte nord-est di Roma. Gli edili della plebe fecero condurre gli approvvigionamenti, mentre i consoli deliberarono di porre i loro accampamenti, uno presso la porta Collina e l’altro presso la porta Esquilina. Al pretore urbano, Calpurnio Pisone, venne affidato il compito di difendere il Campidoglio e l’Arx, mentre i senatori sarebbero rimasti presso il Foro Romano, pronti ad essere consultati in caso di bisogno.

Lo scontro
Annibale mosse con 2.000 cavalieri verso la Porta Collina e giunse nei pressi del Tempio di Ercole, per osservare più da vicino possibile la città e le sue opere difensive. La reazione romana da parte di Fulvio Flacco fu di inviare contro il comandante cartaginese un contingente di cavalleria, per ricacciarlo nei suoi accampamenti.
Alla fine, il combattimento volse a favore della cavalleria romana che riuscì a respingere quella nemica. Tuttavia, poiché in città si erano verificati ovunque sommosse e scene di panico, il resto del giorno e la notte successiva, vennero dedicati a sedare i numerosi tumulti sorti senza ragione d’essere.

Difesa della città di Roma: in verde, dall’assalto di Annibale, a nord-est della città; in rosso, Fulvio Flacco, giunto dal sud della città (Porta Capena), l’attraversa con l’esercito romano e si accampa a nord-est della stessa, tra porta Esquilina e porta Collina.

E quando Annibale decise di prendere d’assalto le mura della città di Roma, un evento accidentale ne interruppe il piano. I consoli di quell’anno (211 a.C.), Gneo Fulvio Centumalo Massimo e Publio Sulpicio Galba Massimo, avevano infatti da poco completato l’arruolamento di una legione, impegnando i soldati a presentarsi a Roma in armi per il giuramento, e proprio in quello stesso giorno erano intenti ad arruolarne una seconda. Questo evento fortuito aveva riunito nella città una grande moltitudine di soldati, proprio nel momento in cui occorreva. I consoli con grande coraggio, li condussero fuori, davanti alle mura della città, frenando l’ardore dell’armata cartaginese.

Annibale, se inizialmente non disperava di prendere la città, una volta visti i nemici disporsi in ordine di battaglia, preferì rinunciare al progetto di assaltarla, dandosi invece a compiere scorrerie per la regione circostante, saccheggiando e incendiando ovunque. I Cartaginesi raccolsero così nel proprio accampamento una grande quantità di bottino, poiché nessuno osava contrastarli.

Assedio di Roma, in un’immagine di fantasia generata dall’IA.

Annibale toglie l’assedio
Tito Livio nel suo resoconto di questa famosa incursione di Annibale fino alle porte di Roma (“Hannibal ad portas“) inserisce elementi scarsamente attendibili su eventi climatici soprannaturali che avrebbero scosso la risolutezza del condottiero e riferisce del comportamento impavido del Senato di Roma. In realtà Annibale, avendo raccolto un notevole bottino dopo il saccheggio del territorio intorno a Roma e ritenendo che il suo piano per distrarre le legioni romane dall’assedio di Capua fosse sostanzialmente fallito, decise autonomamente di ritornare in Campania. Il condottiero cartaginese inflisse una sconfitta alle truppe romane che, al comando del console Publio Sulpicio Galba Massimo, lo avevano inseguito, ma non poté più impedire la caduta di Capua.

LA RESA DI CAPUA

La città si stupì quando, al ritorno di Flacco, non fece ritorno anche Annibale. Da questo fatto i Campani compresero di essere stati abbandonati dal condottiero cartaginese. A tutto ciò si aggiunse un editto del proconsole, nel quale si diceva che ogni cittadino campano che si fosse arreso ai Romani entro un determinato giorno, non sarebbe stato punito. Tuttavia, non vi fu alcuna diserzione, più per paura dei Romani che per fedeltà ad Annibale. I Campani ritenevano, infatti, che la loro colpa di aver abbandonato Roma fosse stata troppo grande per essere realmente perdonata.

Vibio Virrio, il propugnatore della diserzione dall’alleanza romana, non volendo attendere la resa della città e la propria morte, preferì suicidarsi. Egli propose a tutti coloro che, tra i maggiorenti, ne avessero intenzione, di darsi la morte prima di vedere tanti orrori. Predispose un banchetto e dopo essersi saziato con cibo e vino, ad ognuno venne distribuita una tazza contenente del veleno. Morirono in questo modo ventisette senatori campani insieme a Vibio Virrio, dopo aver in precedenza inviato degli ambasciatori ai Romani per comunicare la resa della città.

I Romani entrano a Capua. Immagine generata con l’IA.

La punizione
Il giorno seguente alla dichiarazione di resa della città, per ordine dei proconsoli, venne aperta la porta di Giove che si trovava di fronte ad uno degli accampamenti romani. Passarono da questa porta, insieme al legatus Gaio Fulvio, una sola legione e due alae di cavalleria. Il legatus, dopo aver provveduto che tutte le armi gli fossero consegnate, mise delle sentinelle a tutte le porte per evitare che nessuno potesse entrare o uscire; fece quindi prigioniero l’intero presidio cartaginese e comandò che il Senato campano si presentasse al cospetto dei proconsoli romani nel loro accampamento. Quando vi giunsero, i senatori vennero tutti incatenati e ricevettero l’ordine di far portare tutto l’oro e l’argento che possedevano ai questori. In totale furono raccolte 2.700 libbre di oro e 31.200 di argento. Venticinque senatori vennero inviati come prigionieri a Cales e ventotto a Teanum Sidicinum. Si trattava dei principali responsabili della rivolta di Capua contro Roma.

La vendetta dei Romani al tradimento di Capua, secondo alcune fonti citate anche da Livio tra cui Celio Antipatro, fu molto forte. I Romani avrebbero punito i cittadini capuani rei di aver assecondato Annibale, degradando a prefettura la città di Capua e facendole perdere tutte le cariche e gli organi magistratuali cittadini, con la deportazione trans Tiberim e addirittura per i più abbienti la carcerazione, la confisca dei beni e la vendita di moglie e figlie come schiave.

Prigionieri capuani. Immagine di fantasia generata dall’IA.

Se sulle deportazioni e la carcerazione in massa le stesse fonti in parte dubitano, certo è invece il provvedimento di esproprio dei terreni che con un senatoconsulto il Senato emanò nel 211 a.C. per cui Capua divenne una città agricola, sede di coltivatori, poiché le sue terre erano tra le più fertili dell’Italia romana. Venne quindi ripopolata con nuovi abitanti, schiavi liberati, mercanti e operai. Tutto il territorio e gli edifici pubblici divennero proprietà del popolo romano.

LE CONSEGUENZE DELLA CADUTA DI CAPUA

La brutale vendetta di Roma fece vacillare la decisione delle altre popolazioni vicine. Non appena Capua cadde nelle mani dei Romani, tutte le altre città che fino a quel momento si erano dimostrate ostili a Roma, entrarono in apprensione e cominciarono a cercare ogni occasione buona per passare dalla parte della Repubblica romana. Prime fra tutte furono quelle di Atella e Calatia, dove però furono giustiziati i responsabili della rivolta.

Annibale si trovò in gravi difficoltà, nell’incertezza di come comportarsi, non potendo gestire tante città da un’unica posizione dov’egli si trovava ed in inferiorità numerica, poiché i Romani disponevano di imponenti forze dislocate quasi ovunque, come possiamo vedere nella cartina qui sotto. Si trovò così a dover abbandonare numerose città alleate al loro destino e a togliere alcune guarnigioni da altre, per il timore che i suoi soldati potessero venire uccisi da una rivolta cittadina. Giunse anche a violare i patti, trasferendo gli abitanti da una città ad un’altra e facendone saccheggiare i beni, tanto che alcuni lo accusarono di empietà e crudeltà.

UNA GUERRA DI POSIZIONE

Nel 210 a.C. Annibale non riuscì più a sferrare grandi offensive e Roma, attenendosi ai principi tattici di Fabio Massimo, continuò a contendere territorio e risorse al cartaginese senza farsi coinvolgere in grandi battaglie campali.

Annibale era particolarmente angosciato dal fatto che la resa di Capua avesse allontanato dai Cartaginesi molte popolazioni dell’Italia meridionale. Del resto, egli non avrebbe potuto mantenerle in suo potere distribuendo tra loro le dovute guarnigioni, poiché questo avrebbe frantumato l’esercito in numerose piccole parti, esponendolo a un attacco congiunto delle forze romane. D’altro canto, ritirando i presidi, avrebbe perduto la fedeltà degli alleati. Fu così che preferì saccheggiare quelle città che non poteva difendere per abbandonare ai nemici solo luoghi devastati.

Cavalleria numida che devasta la campagna italiana – Dipinto del Team Würfelkrieg. Fonte: victrixlimited.com

Nel 209 a.C. Quinto Fabio Massimo, nonostante i suoi quasi settant’anni, assalì Taranto che espugnò l’anno successivo. Qui 30.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi: Roma, con 10 delle sue 21 legioni attive (pari a 100.000 cittadini circa e altrettanti alleati), continuava la graduale riconquista del Sannio e della Lucania.

Nel 208 a.C. i nuovi consoli, l’esperto Marco Claudio Marcello, la “spada di Roma” e conquistatore di Siracusa, e Tito Quinzio Crispino, sembrarono decisi finalmente ad attaccare in campo aperto Annibale in quel momento accampato con il suo esercito a Venosa; ma il cartaginese si dimostrò ancora una volta superiore: i due consoli furono attirati in un’imboscata, Marcello venne ucciso sul posto e Crispino mortalmente ferito. L’esercito romano, rimasto senza capi, batté in ritirata. Polibio criticava molto l’imprudenza di Marcello, visto che anche gli auspici erano stati sfavorevoli; in ogni caso Annibale fece cremare il corpo e lo restituì al figlio. Il Barcide subito accorse a Locri nel Bruzio dove disperse le forze romane che l’assediavano; cadde prigioniero anche il comandante romano, il futuro storico Lucio Cincio Alimento; anche la campagna del 208 a.C. si chiuse favorevolmente per il condottiero cartaginese.

Statua raffigurante il console Marco Claudio Marcello, conquistatore di Siracusa, conservata presso i Musei Capitolini a Roma.

LA SVOLTA: LA BATTAGLIA DEL METAURO

Bashar Rahal, nella parte di Asdrubale nel film Tv “Annibale” con protagonista Alexander Siddig, realizzato nel 2006 dalla BBC.

Nel 207 a.C. sembrò che finalmente Cartagine avesse deciso di fornire importanti aiuti ad Annibale; il fratello Asdrubale riuscì a superare l’opposizione del giovane Publio Cornelio Scipione (protagonista della quarta parte dell’articolo) e marciò dalla Spagna fino in Italia dopo avere attraversato le Alpi.

Il passaggio dei Pirenei
La campagna di Asdrubale per portare aiuto a suo fratello in Italia si era svolta, fino a quel momento, sorprendentemente bene. Dopo aver eluso in Spagna l’inseguimento di Publio Cornelio Scipione che intendeva sbarrargli la strada, ad Asdrubale era stato impedito, tuttavia, lo stesso percorso intrapreso un decennio prima da Annibale, perché il Passo Sommo Pireneo (oggi Colle di Panissars) era controllato dai Romani. Aveva quindi valicato i Pirenei più a nord, verso Roncisvalle, per poi convergere a sud lungo il corso del fiume Isère e ricollegarsi così al vecchio itinerario di Annibale.

Il passaggio delle Alpi
Nella primavera del 207 a.C. Asdrubale valicò rapidamente le Alpi, muovendosi molto più in fretta di Annibale quando era passato attraverso la stessa via dieci anni prima, in parte grazie alle costruzioni lasciate dall’armata di suo fratello e in parte perché ora la minaccia gallica, che aveva tormentato Annibale nella spedizione precedente, era stata rimossa. I Galli infatti ora temevano e rispettavano i Cartaginesi e, non solo lasciarono passare Asdrubale attraverso il loro territorio senza aggredirlo, ma addirittura andarono ad ingrossare le file del suo esercito. Asdrubale, alla stessa maniera del fratello, ebbe anche successo nel condurre i suoi elefanti da guerra, raccolti e addestrati in Spagna, attraverso le Alpi.

L’itinerario (in giallo) di Asdrubale. In rosso, l’itinerario di Annibale.

La preoccupazione di Roma
La prospettiva di dover combattere i due fratelli Barcidi era vista con grande preoccupazione a Roma. Nondimeno, i nuovi consoli Gaio Claudio Nerone e Livio Salinatore furono inviati a combattere, rispettivamente, Annibale e Asdrubale. Inizialmente nessuno dei due attaccò battaglia: i 40.000 uomini di Nerone furono impegnati in piccole battaglie in Abruzzo e Salinatore, nonostante l’aggiunta degli effettivi di due delle molte legioni romane distribuite attraverso l’Italia, si avvicinò cautamente ad Asdrubale, consentendogli così di ritirarsi oltre il Metauro e a sud di Senigallia.

Annibale, informato dell’arrivo del fratello, dal Bruzio mosse verso nord; il console Gaio Claudio Nerone non riuscì a bloccarlo e il condottiero raggiunse con il suo esercito l’Apulia, dove sperava di riuscire a concertare un ricongiungimento con un esercito cartaginese che stava discendendo l’Italia agli ordini del fratello.

Il messaggio intercettato
La situazione rimase sostanzialmente immutata fino a che Asdrubale non mandò messaggeri ad Annibale, comunicandogli che desiderava congiungersi con lui in Umbria e da lì condurre insieme un assalto frontale contro Roma. Tuttavia, gli inviati di Asdrubale furono catturati e i suoi piani finirono nelle mani del console Nerone, che partì da Teanum Apulum in fretta verso nord con 6.000 fanti e 1.000 cavalieri per incontrarsi con Salinatore.

La marcia del console Nerone.

Nerone, riconoscendo l’urgenza della situazione e l’enorme minaccia che un’unione delle armate dei due fratelli cartaginesi avrebbe rappresentato per Roma, non perse tempo ad avvertire il senato perché organizzasse delle nuove leve di soldati. Lasciò invece uno sparuto contingente di truppe a fronteggiare Annibale, con l’ordine di addestrarsi quotidianamente per non indurlo a sospettare il ritiro delle forze migliori, e a marce forzate notturne (in modo da occultare i propri movimenti ad eventuali spie cartaginesi e nel contempo sfruttare la frescura della notte per attenuare la fatica delle proprie truppe) si spostò verso nord di circa 500–600 km; il che ha dell’eccezionale ancor oggi: i Romani, infatti, seppur senza zaini e salmerie perché riforniti dagli alleati delle regioni che attraversavano, percorsero comunque circa 63 km al giorno.

L’armata romana si riunisce
Nerone raggiunse velocemente Salinatore, che era accampato a Senigallia assieme al pretore Porcio. L’esercito di Asdrubale si trovava circa mezzo miglio a nord e tuttavia, poiché Nerone era arrivato di notte, la sua presenza non fu notata fino al giorno successivo, quando i Romani si prepararono per la battaglia. Infatti, quando Asdrubale schierò le proprie truppe, osservò che l’armata di Salinatore sembrava essere cresciuta considerevolmente e che disponeva di molta più cavalleria.
Asdrubale si ricordò di aver sentito una tromba nel campo romano, la notte precedente, segnalare l’arrivo di un personaggio importante e quindi dedusse correttamente che stava affrontando entrambi i consoli romani. Scoraggiato, ritirò le truppe dal campo.

Asdrubale è confuso
Il resto del giorno passò senza che accadesse nulla perché i Romani non si azzardarono ad avvicinarsi alle fortificazioni di Asdrubale. Quando però venne la notte, questi portò silenziosamente la sua armata fuori dal campo con l’intenzione di ritirarsi in Gallia, dove avrebbe potuto stabilire comunicazioni con Annibale senza pericolo. Tuttavia, poco dopo l’inizio della marcia, le guide di Asdrubale lo tradirono, abbandonandolo perso e confuso lungo le rive del Metauro, nell’inutile ricerca di un guado per attraversarlo.
Anche la notte passò senza fatti di rilievo, ma il mattino successivo Asdrubale trovò la sua armata incerta e confusa e con una gran quantità delle truppe galliche ubriache. Con la cavalleria romana in rapido avvicinamento e le legioni comandate dai due consoli poco più lontane, Asdrubale si preparò con riluttanza alla battaglia.

Gli schieramenti – Cartagine
L’armata di Asdrubale è stimabile in 30.000 uomini ed era comunque in minoranza rispetto all’armata romana e soprattutto mancava di quella sufficiente cavalleria che invece abbondava nelle file dei Romani. Nonostante ciò, dispose le truppe nel modo migliore possibile in simili condizioni. Lo schieramento cartaginese sul campo ricorda, non solo metaforicamente, un martello: il manico è costituito dai Galli che si sono fermati, esausti, così come si trovavano dopo la marcia, lungo il crinale del colle; la testa è invece formata a sinistra da un contingente di Galli che è riuscito a mantenere una coesione sufficiente ad affrontare il combattimento, al centro dagli elefanti sostenuti dai Liguri, a destra dagli Spagnoli, nome sotto il quale vanno comprese tutte le truppe provenienti dalla penisola iberica e quindi anche i mercenari africani.

Il peso di tutto l’attacco cartaginese sarebbe quindi gravato su un unico segmento della fronte nemica, travolto il quale l’intero schieramento romano potrà essere preso a rovescio. Una volta rotta la fronte nemica, Asdrubale non avrebbe avuto più ostacoli di fronte a sé e avrebbe potuto proseguire verso sud fino a congiungersi con il fratello.

Gli schieramenti iniziali.

Gli schieramenti – Roma
L’armata romana di Salinatore doveva contare almeno 40.000 uomini (tra cui i 7.000 che avevano accompagnato Claudio Nerone).
I Romani, pur arrivando sul campo divisi e in momenti diversi – quindi il loro schieramento è in parte casuale – riescono molto rapidamente a ricostruire la loro classica formazione da battaglia: facilitati in questa operazione dal fatto che i legionari hanno compiuto tutto l’inseguimento già dispiegati. In breve, con la massima attendibilità, la linea romana vede, da sinistra verso destra: “turmae” di cavalleria (la maggior parte), fanteria alleata in coorti, tutta la fanteria romana in tre linee parallele di manipoli, altra fanteria alleata in coorti, e infine la rimanente parte della cavalleria. A coprire tutta la fronte i veliti e gli schermagliatori. Comanda la sinistra Livio Salinatore – che è anche il comandante in capo – mentre a destra è presente Nerone.

La battaglia ha inizio – fase 1

Fase 1

Fu Asdrubale a dare inizio allo scontro, concentrando il suo centro e l’ala destra contro le truppe di Livio, che tenevano la sinistra nello schieramento romano. All’inizio il combattimento fu favorevole ad Asdrubale, i cui elefanti riuscirono a rompere le linee romane e a seminare confusione tra le truppe di Salinatore.
Dal racconto di Polibio possiamo anche arguire di un grave momento di crisi tra le truppe romane, perché lo storico greco ci informa che “Livio affrontò i nemici con decisione e venuto a combattimento lottò animosamente”: dunque il console ha dovuto scendere in campo di persona, un’azione che un comandante non compie se non quando è strettamente indispensabile per rianimare degli uomini che stanno per cedere definitivamente di fronte al nemico.

Il successo iniziale dei Cartaginesi è addebitabile allo schieramento e all’azione degli elefanti. Questi ultimi, però, ben presto hanno perso qualsiasi governabilità e “si agitavano vagando tra le due schiere, come incerti quale fosse il loro esercito, simili a navi erranti sul mare senza pilota”: l’efficacissima immagine è di Livio (27.48.11) e ci aiuta a farci un’idea ‘fisica’ delle due armate sul campo: confuse ma ancora distinguibili, percorse, è il caso di dirlo, da elefanti imbizzarriti che non conoscono amici o nemici, ma che travolgono indifferentemente tutti quelli che non sono abbastanza lesti da scansarsi. La linea romana ha sofferto l’urto, ha subìto una flessione però non si è ancora spezzata.

Fase 2

Fase 2

Nerone deve vivere questa crisi con grandissima preoccupazione: tutta la responsabilità di un’eventuale sconfitta sarebbe gravata sulle sue spalle, a lui sarebbero state addebitate tutte le colpe. Tanto più che solo una parte dei soldati che egli comanda sono coinvolti nel combattimento perché gli altri sono impossibilitati a farlo dalle asperità del terreno: si tratta di scendere una scarpata e di salire un colle: per far cosa poi? attaccare una folla di Galli insonnoliti ed ubriachi.
Subito, però, desistette da questa iniziativa, perché alla sua mente era balenato un altro colpo di genio, degno gemello di quella eccezionale intuizione che lo aveva portato sulle rive del Metauro.

Prese un reparto dell’ala destra che vedeva inoperoso, lo condusse dietro le schiere romane – il centro e l’ala sinistra – avvolse il fianco dello schieramento nemico e quindi lo attaccò alle spalle. La velocità dell’operazione fu tale che i Romani furono sorpresi tanto quanto i Cartaginesi. L’effetto morale e materiale immediato è devastante.

Fase 3

Fase 3

La battaglia prese tutto un altro volto: narra Polibio che “una parte dei Romani investiva gli Spagnoli di fronte, l’altra alle spalle, così il grosso degli invasori fu fatto a pezzi sul campo di battaglia”. Gli Spagnoli erano schierati alla ‘sinistra dell’ala sinistra’ e come tali subirono tutta l’efficacia della manovra di Nerone. Una parte dei Liguri e dei Galli, invece, avrà il modo e il tempo di accorgersi del pericolo e di sottrarsi alla strage con la fuga.

Asdrubale non ha riserve da opporre a questo inaspettato aggiramento: e anche se le avesse avute, esso si era realizzato troppo rapidamente per essere contrastato.

Ben presto il combattimento si trasformò in una strage: né altrimenti si può definire la battaglia quando dilagò là dove si trovavano le milizie dei galli che erano assolutamente impreparati a combattere a causa dei bagordi della notte precedente, non più protette sui fianchi dai loro compagni. I Romani li attaccarono senza pietà, incontrando quasi nessuna resistenza: la maggior parte venne scannata nel sonno.

Fase 4 – La fuga dei Cartaginesi e la morte di Asdrubale

Fase 4

Il fratello di Annibale dà nuovamente prova del proprio indiscutibile valore, ergendosi tanto nella narrazione di Livio quanto in quella di Polibio alla dignità di un grande eroe tragico: tentò in ogni modo di fermare i fuggitivi, di rianimare la battaglia, di rovesciarne le sorti. Il generale cartaginese, vedendo che non c’era altro da fare o semplicemente non volendo essere preso prigioniero, caricò nel mezzo della battaglia, contro una coorte romana, incontrando una fine gloriosa.

Lo storico romano e quello greco hanno parole di grande rispetto nei confronti del cartaginese: Polibio addirittura lo addita ad esempio dicendo: “Asdrubale, finché nutrì qualche speranza (…) provvide con ogni mezzo, durante le battaglie, alla propria salvezza; quando invece la sorte, dopo averlo privato di ogni speranza per il futuro, lo ridusse all’estremo pericolo, pur senza aver nulla trascurato né durante i preparativi né in combattimento per ottenere la vittoria, si sforzò insieme di non compiere alcuna azione indegna della sua vita passata qualora, sconfitto, dovesse cedere alle circostanze” (XI, 2).

IL BILANCIO DELLA BATTAGLIA DEL METAURO

Il fiume Metauro oggi.

La vittoria romana fu totale. Lo scontro del Metauro vide Roma, per la prima volta, vincere una battaglia campale in Italia dall’inizio della guerra. Alla fine, secondo Livio, si contarono 56.000 morti tra i Cartaginesi e 5.400 prigionieri, e 8.000 morti tra i Romani e gli alleati. Molto più contenuto è il bilancio della battaglia secondo Polibio, il quale riferisce che “non meno di 10.000 Cartaginesi e Galli morirono in combattimento, mentre i Romani perdettero circa 2.000 uomini“. I due riferimenti sono troppo distanti: e anche a voler accusare Livio di eccedere per voler a tutti i costi esagerare la portata della vittoria, le cifre che ci riporta – persino dopo un energico tentativo di ridimensionamento – rimangono sempre troppo distanti da quelle di Polibio.

È ovvio che sulle cifre delle perdite dobbiamo basarci anche per valutare gli effettivi delle armate – in particolare quella di Asdrubale – ad inizio campagna, per cui è veramente importante trovare un qualche compromesso che metta d’accordo le due fonti.

E’ probabile che in questa occasione sia Polibio a sbagliarsi. Non può neppure essere escluso che egli riporti un totale “parziale” delle perdite: ovvero solo i Cartaginesi e i Galli sommati assieme, e solo i cittadini romani.

D’altra parte l’emozione che a Roma susciterà questa vittoria è difficile da giustificare se fossero veri i dati di Polibio.

Il murale dell’artista Agrà in località Cerbara di Piagge nel comune di Terre Roveresche che illustra la Battaglia del Metauro.

LA TESTA DI ASDRUBALE

Solo una piccola frazione di nemici era riuscita a trovare scampo nella fuga e Livio Salinatore, avvisato del loro vagare nella campagna circostante in un gruppo di disperati senza comandante, senza ordine, senza disciplina, senza insegne, rinunciò a distruggerli, e per farlo sarebbe bastata una singola ala di cavalleria: “Sopravviva pure qualcuno – sentenziò – a portare la notizia della disfatta dei nemici e quella del nostro valore”. (Livio 27.49.3).

Nerone non ebbe tempo di dire frasi celebri. Aveva troppa fretta di tornare a Canusium dove lo attendeva un nemico ancora più temibile di quello che aveva sconfitto.

Obbligò i suoi uomini ad un nuovo immane sforzo e ad un nuovo record di marcia forzata: 472 Km. in sei giorni, per una media di quasi 79 Km. al giorno.

Nerone non mostrò alcun rispetto per il suo avversario caduto. Ordinò che la testa di Asdrubale fosse tagliata: giunto a Canusium la farà gettare nell’accampamento di Annibale per fargli sapere della morte del fratello e questi leggerà nel suo volto l’infausto destino della propria impresa.

Annibale vede la testa del fratello Asdrubale.

UNA SVOLTA STORICA

Il tentativo di inviare rinforzi ad Annibale era fallito e Roma ne poteva solo beneficiare anche di fronte agli alleati italici. Il Metauro “fu un evento decisivo nella storia mondiale e una vera benedizione per Roma”, come sostiene lo storico britannico Howard Scullard (1903-1983) che aggiunse: “Anche se la storia può non ricordarsi del console Nerone, gli effetti della battaglia che vinse, difendendo la repubblica romana, sono certamente noti. Con la morte del fratello e i suoi soldati messi in fuga o uccisi e nessuna speranza di aiuto da Cartagine – che era troppo impegnata con le sue battaglie politiche per mandargli aiuto – il sogno di Annibale di placare la sua sete di sangue romano, bruciando la capitale, si interruppe definitivamente”.

Se Asdrubale fosse riuscito a riunirsi al fratello, le sorti della seconda guerra punica avrebbero potuto essere differenti, ma forse come sostiene lo Scullard, “anche se l’esito fosse stato diverso, difficilmente ciò avrebbe portato alla conclusione della guerra”.

L’importanza della battaglia del Metauro è riconosciuta presso gli storici. È inclusa in Le quindici decisive battaglie del mondo di Edward Creasy (1851), per il fatto che effettivamente rimosse la minaccia cartaginese all’ascesa romana verso il dominio globale, lasciando Annibale isolato in Italia. La battaglia del Metauro è molto offuscata da altre battaglie della seconda guerra punica, come l’incredibile vittoria di Annibale nella Battaglia di Canne o la sua definitiva sconfitta a Zama. Nonostante ciò, gli effetti della vittoria di Nerone e Salinatore al Metauro hanno acquistato un significato notevole presso gli storici, non solo nella storia di Roma, ma in quella di tutto il mondo.
A Roma ogni attività si era fermata dal giorno della partenza di Nerone da Canusium. La città temeva veramente il peggio e quando invece, a soli due giorni dalla battaglia, giunsero i messaggeri che portavano la grande notizia, la prima reazione fu di incredulità: troppo bello per essere vero.

Solo dopo aver ottenuto una conferma, i Romani poterono sciogliere la propria gioia.

Da quel giorno nessun Romano temette più che si potesse uscire sconfitti dalla Seconda Guerra Punica: semplicemente si comportarono come se Annibale non fosse più sul territorio italiano.
Quando a Roma fu il giorno del trionfo, l’onore venne tributato a Livio Salinatore, in quanto Console in carica durante la battaglia – sua era infatti l’armata principale e la provincia in cui si combatté – ma in realtà le ovazioni più sincere e più entusiaste furono rivolte a Nerone, il quale partecipò al trionfo senza le sue legioni, cavalcando da solo dopo la sfilata dell’esercito del collega.

ANNIBALE È BLOCCATO

Annibale si ridusse nel Bruzio dove ormai con i pochi uomini a disposizione condusse una vita da masnadiero: intenzionato a perseverare ancora e resistere, si perse in scaramucce e assalti senza frutto, in uno scenario che non era suo e da cui non capiva come uscirne. Era un vincitore che praticamente non riusciva a vincere.

Non era stupido, Annibale. Il suo istinto di condottiero decrittava benissimo i segnali del destino: sentiva il potere e la fortuna che gli scivolavano dalle mani come sabbia. Giovani talenti romani della guerra, come Scipione, emergevano come leoncini, mentre lui avvertiva ormai il peso degli anni e dei rimorsi per coloro che, per seguirlo, hanno perduto la vita. È una lenta agonia quella che gli veniva imposta dal fato: accerchiato, isolato, senza reali contatti con quella madrepatria, Cartagine, che in fondo per lui era solo un nome. Ma non si arrese, non era nella sua natura: combatté, ribattendo colpo su colpo. Straniero e solo, non fu sconfitto né tradito, a riprova del suo genio politico.

L’enigmatica scultura dell’elefante dell’Incavallicata, Campana (Cosenza) – Ph. © Ferruccio Cornicello.

Annibale, dopo aver combattuto per oltre quindici anni in Italia, senza riuscire a conquistare Roma né a convincere tutti gli alleati italici a passare dalla sua parte, si trovò isolato e privo di rinforzi. Il suo esercito era ridotto a circa 20.000 fanti e 4.000 cavalieri, composti in gran parte da veterani e volontari italici. Il suo unico sostegno esterno era il re di Macedonia Filippo V, che però era impegnato in una guerra contro Roma e i suoi alleati greci, nota come prima guerra macedonica.

Dal 205 al 203 a.C. Annibale rimase praticamente bloccato nel Bruzio; egli difese tenacemente le sue ultime posizioni; non poté impedire la caduta di Locri ma i comandanti romani, ancora intimoriti dalla sua impressionante reputazione, rinunciarono ad attaccarlo.

La capacità di Annibale di rimanere in campo per quindici anni senza soste in Italia in mezzo agli eserciti nemici, nell’ostilità della popolazione, senza mezzi e aiuti adeguati; le sue quasi continue vittorie in grandi battaglie campali e in numerosi scontri minori e soprattutto la sua capacità di mantenere sempre la coesione e la fedeltà delle truppe nel corso dell’interminabile ed estenuante campagna, sono state considerate da Polibio i maggiori successi della sua carriera militare. Anche Theodor Mommsen ha espresso grande ammirazione per l’abilità di Annibale nel combattere per oltre dieci anni azioni offensive, difensive e di logoramento contro un gran numero di eserciti nemici; lo storico tedesco ritiene “meraviglioso” che il condottiero cartaginese sia riuscito a condurre in Italia con “eguale perfezione” due tipi di guerra completamente diversi: l’audace campagna offensiva dei primi anni e le lunghe operazioni difensive dal 215 al 203 a.C.

SI VOLTA PAGINA

Dopo il fallimento di Magone in Liguria nel 203 a.C. e le vittorie di Cornelio Scipione – il nuovo astro nascente di cui parleremo ampiamente nella prossima parte – in Africa, giunse da Cartagine l’ordine di ritornare in patria e infine nell’autunno 203 a.C. Annibale dovette abbandonare l’Italia portando con sé i suoi veterani e i volontari italici disposti a seguirlo. Egli in realtà era consapevole da tempo che la sua lunga campagna nella penisola era fallita; fin dal 205 a.C. aveva fatto incidere, secondo la tradizione dei condottieri ellenistici, un’iscrizione in bronzo presso il tempio di Era a Capo Lacinio dove venivano descritte le sue imprese in Italia.

Il Tempio di Era a Capo Colonna.

Le carte in tavola erano cambiate, e adesso sarebbero stati i Romani, come vedremo nella quarta parte di questo lungo articolo, a ripagare Annibale con la sua stessa moneta.

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