I GRANDI NEMICI DI ROMA – ANNIBALE (Prima parte: dalle Alpi al Trasimeno).

Il “Dono di Baal”, crebbe giurando eterna inimicizia verso Roma. Il suo genio militare lo portò a compiere una delle più straordinarie imprese militari di tutti i tempi: il passaggio attraverso le Alpi. Approfittando del suo eccellente servizio informativo, migliore rispetto a quello dei Romani, Annibale ottenne in due anni delle incredibili vittorie sulle legioni, provocando il panico a Roma.

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“Le notizie che giungevano a Roma non lasciavano spazio alla speranza […] Era stato riferito che l’esercito, inclusi i due consoli, fosse stato annientato e che tutte le forze fossero state sbaragliate. Non c’era mai stato, entro le mura romane, tanto sbigottimento e tanto tumulto […]. Visto che non si conoscevano con esattezza i fatti, in tutte le case si piangevano indistintamente sia i vivi che i morti”

Questo scriveva lo storico Tito Livio due secoli dopo l’accaduto, rievocando la terribile sconfitta delle legioni a Canne del 216 a.C., un’autentica carneficina con decine di migliaia di morti.

Il personaggio “Annibale” ha sempre suscitato nell’immaginario collettivo un’enorme risonanza quale grande condottiero e grande stratega.
Infatti nell’ambito della memoria storica dei condottieri si può considerare un vero e proprio mito: è l’uomo che ha fatto attraversare le Alpi agli elefanti da guerra con il loro pesante armamentario; è l’uomo che, in certi momenti (ma non in via definitiva) ha piegato l’enorme potenzialità umana che Roma era in grado di mettere in campo, incidendo sul corso degli eventi storici e provocando ferite gravissime nella salda struttura della federazione romano – italica.

La prima immagine di Annibale che rimane nella memoria è quella patetica di un bambino che giura al padre Amilcare l’odio eterno per il popolo romano accanto a quella grandiosa di un uomo che guida gli elefanti attraverso le Alpi.
Dalla suggestione di Giovenale, che considera notevole il peso di Annibale nella storia, si passa a Marziale che ce ne dà un’immagine inquietante, presentandolo come il comandante con un occhio solo, una sorta di orco delle favole, destinato a rimanere tale sino all’età dei Severi.
L’altro ritratto famoso è quello tracciato da Tito Livio, che, al contrario, riconosce in Annibale straordinarie virtù fisiche esaltandone la sopportazione della fatica, la insensibilità al caldo e al freddo.
Ma, nello stesso tempo, lo connota con due requisiti quali la “perfidia” e la “inhumana crudelitas”, cioè la slealtà e la crudeltà quasi feroce.
Tali rappresentazioni sono evidentemente a breve o grande distanza temporale dagli eventi, il frutto di un mondo scioccato dalla guerra definita addirittura annibalica per l’impresa immensa del Cartaginese, protagonista unico della seconda guerra punica.

Annibale conosceva bene il mondo romano, ne poteva valutare il formidabile potenziale demografico, la forza e la solidità delle legioni e degli ordinamenti politici, la compattezza della classe dirigente. In modo lungimirante si rese conto che questa potenza si sarebbe rivolta al mondo greco e decise di compiere l’ardita impresa di invadere l’Italia.

Ma, ironia della sorte, fu proprio lui, con la sua avventura in Italia, a svegliare un mostro che minacciava di divorare non solo lui stesso, ma l’intero mondo conosciuto e non ebbe la possibilità di fermarlo.
A lui la potenza di Roma dové lo straordinario strumento della sua supremazia militare e quindi della sua conquista; a lui, per incredibile ironia della sorte, la classe dirigente romana doveva il fatto di aver acquisito quella mentalità che l’avrebbe avviata a fagocitare il mondo civile.

In questa prima parte vedremo come nasce il personaggio Annibale e perché il suo odio verso Roma fu così intenso. Vedremo la sua ascesa come comandante supremo dell’esercito in Iberia e lo seguiremo nel suo audace passaggio delle Alpi, fino alle sue prime, incredibili vittorie nelle battaglie della Trebbia, del Ticino e del Trasimeno in questo nuovo articolo della Rubrica “La Stele di Rosetta”, pubblicato in esclusiva per IQ. Buona lettura.

INDICE DEI CONTENUTI

IL DONO DI BAAL

UNA FAMIGLIA POTENTE

IL TIROCINIO E L’ISTRUZIONE

CARTAGINE ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA PUNICA

LA CAMPAGNA DI AMILCARE IN SPAGNA

IL GIURAMENTO DI ANNIBALE

ANNIBALE ASSUME IL COMANDO

TUTTO COMINCIA A SAGUNTO

I PREPARATIVI PER LA GUERRA

LA PARTENZA: DA NOVA CARTHAGO ALLE ALPI

IL LEGGENDARIO PASSAGGIO DELLE ALPI

L’enigma del punto di passaggio

Un candidato verosimile: il Col delle Traversette

AFRICANO O ASIATICO?

Perché gli elefanti?

ANNIBALE ARRIVA IN ITALIA

LA BATTAGLIA DEL TICINO (novembre 218 a.C.)

LA BATTAGLIA DELLA TREBBIA (18 dicembre del 218 a.C.)

LA BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO (21 giugno 217 a.C.)

LA PROBLEMATICA IDENTIFICAZIONE DEL SITO DELLA BATTAGLIA

I CAMBIAMENTI NELL’ORDINAMENTO MILITARE ROMANO

IL DONO DI BAAL

“Se è vero, cosa che nessuno mette in dubbio, che il popolo romano superò in valore tutte le genti, non si può negare che Annibale di tanto fu superiore in accortezza a tutti gli altri condottieri, di quanto il popolo romano supera in potenza tutte le nazioni”

(Cornelio Nepote, Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium, XXIII. Hannibal. 1-2)
Amilcare e Annibale. Cammeo in agata calcedonio di età romana. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.

Annibale Barca (dal fenicio Hanniba’al חניבעל, Dono [o Grazia] di Baal) era il figlio maggiore del condottiero cartaginese vissuto tra il 275 e il 228 a.C. e protagonista della prima guerra punica (264-241 a.C.), Amilcare, nella quale, per la sua audacia, s’era guadagnato l’appellativo di “Barca” (dal fenicio Barak, “fulmine“), e che era stato poi trasmesso ai suoi discendenti.

Nacque nel 247 a.C. e i suoi fratelli minori erano Asdrubale Barca e Magone Barca che lo seguirono nelle sue campagne militari e che condivisero con lui il sogno di distruggere Roma. Barca non è un nome di famiglia, ma il soprannome dato ad Amilcare e trasmesso ai figli. Invece il termine Barcidi è stato introdotto dagli storici a posteriori per evitare confusione di nomi.

UNA FAMIGLIA POTENTE

La fortuna ed il potere della famiglia dei Barcidi non iniziò con Amilcare, ma si lega, in maniera indissolubile, alla storia della stessa Cartagine fin dalla sua fondazione. La centralità dei Barcidi nella società cartaginese era direttamente collegata ai possedimenti terrieri che nel tempo erano andati crescendo, attraverso conquiste militari ed accordi commerciali che, nel corso dei secoli, avevano portato sotto il controllo diretto dei Barcidi numerose proprietà terriere nella regione di Byzacena, che si estendeva lungo la costa dell’Africa settentrionale ad est di Cartagine, di fatto la famiglia di Annibale controllava direttamente grandi possedimenti terrieri in quello che oggi è l’entroterra tunisino e alcuni dei più importanti noli commerciali, lungo quella che oggi è la costa libica.

In tempo di guerra, in un’epoca in cui gli eserciti non erano permanenti ed i soldati provvedevano da soli al proprio armamento, il comando militare dipendeva in larghissima misura dalle disponibilità economiche delle famiglie.
Infatti, i Cartaginesi erano un popolo di commercianti ma non di guerrieri. I combattenti erano tutti mercenari, di cartaginesi c’erano solo i generali che in genere erano di nobili famiglie in concorrenza tra loro. Inoltre, in caso di sconfitta venivano processati e se riscontrati inadempienti potevano essere anche condannati a morte.

IL TIROCINIO E L’ISTRUZIONE

Un giovane Annibale si addestra con il padre Amilcare. Immagine generata con l’AI.

Prima di divenire comandante, Annibale crebbe tra i soldati come valletto di truppa. Educato secondo i canoni di una duplice cultura, punica e greca, egli trasse dal versante ellenico la sua preparazione bellica. Gli giovò nell’impegno la regola di vita, improntata alla massima austerità, che gli diede grande resistenza rispetto a ogni privazione, fisica e morale, una solidità che, fin da giovane, aveva rafforzato con l’addestramento.
Per lui Amilcare scelse un istruttore di Sparta, Sosilo, che, giunto in Spagna, divenne uno degli storiografi del Barcide, narrando le sue gesta in opere andate perdute.

Nel quadro di un tirocinio completo Annibale dovette leggere i testi scritti dagli storici e biografi greci sulle campagne dei generali ellenistici, Filippo II di Macedonia e soprattutto Alessandro, Antigono Monoftalmo e suo figlio Demetrio Poliorcete, Pirro, Santippo; ma forse conobbe e meditò anche le opere di Senofonte, le Effemeridi reali di Eumene di Cardia, le Memorie di Tolomeo I Sôter, le Praxeis di Callistene e ogni altro scritto di argomento bellico. Alla sua formazione concorsero certo i poemi di Omero e le Storie di Tucidide.

CARTAGINE ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA PUNICA

Prima di continuare a parlare della figura di Annibale, dobbiamo aprire obbligatoriamente una parentesi per comprendere il contesto storico: perché Annibale non è spuntato così dal nulla e ha deciso di invadere l’Italia come capriccio o per far vedere quanto fosse bravo. Il Barcide fu il prodotto di eventi precedenti che vanno contestualizzati.

Una spettacolare ricostruzione del porto di Cartagine.

Nel III secolo a.C. Cartagine era lo Stato più potente del mondo occidentale e basava la sua ricchezza sul commercio, usando la sua superiore forza navale per dominare il Mediterraneo. Roma era ancora una piccola Repubblica, ma in costante crescita e con smisurate ambizioni. Abbiamo visto nel primo episodio di questa serie (questo il link) come, in seguito alla vittoria contro Pirro, Roma abbia sottomesso la Magna Grecia ponendo in contatto la sua sfera di influenza con quella di Cartagine.

Sapendo entrambi di essere un pericolo reciproco, e al culmine di tensioni sempre crescenti, la guerra fu inevitabile. Le due parti iniziarono una lotta mortale la cui furia si abbatté sulla Sicilia. All’inizio della prima guerra punica, Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale. Le sue legioni erano vittoriose da secoli nelle terre italiche ma non esisteva una Marina, tanto meno una Marina militare. Roma mancava della tecnologia navale e quindi dovette costruire una flotta basandosi sulle triremi e quinqueremi cartaginesi catturate (attuando quella che oggi chiamiamo “ingegneria inversa”.

Battaglia delle Isole Egadi, vinta dai Romani grazie al Corvus, una passerella d’arrembaggio che trasformava la battaglia navale in una battaglia corpo a corpo.

La prima guerra punica fu decisa dalla battaglia delle Isole Egadi (10 marzo 241 a.C.) vinta dalla flotta romana sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo. Cartagine, persa la maggior parte delle navi della flotta inviata in soccorso di Amilcare, assediato negli ultimi ridotti siciliani sull’estremità occidentale dell’isola, fu economicamente incapace di varare un’altra flotta o di trovare nuovi equipaggi. Senza navi che gli consentissero i collegamenti con la madrepatria, Amilcare, in Sicilia, fu costretto ad arrendersi. Fu una sconfitta scioccante, che avrebbe avuto conseguenze pesantissime, ed una umiliazione personale per il generale cartaginese.

Le condizioni di pace che Roma impose a Cartagine furono, infatti, pesantissime non potendo essere in condizioni di trattare. Queste imponevano che Cartagine dovesse:

  • evacuare la Sicilia,
  • restituire i prigionieri di guerra senza ottenere riscatto mentre doveva riscattare i propri prigionieri,
  • impegnarsi a non attaccare Siracusa, governata da Gerone II, e i suoi alleati,
  • perdere il controllo del mar Mediterraneo,
  • consegnare a Roma il possesso di un gruppo di piccole isole a nord della Sicilia,
  • pagare un’indennità di guerra di 1000 talenti immediatamente e 2200 talenti in 10 rate annuali.

Altre clausole determinavano che nessun attacco poteva essere effettuato dalle due parti verso gli alleati degli altri e fu proibito a entrambi di raccogliere truppe nel territorio della parte avversa. Questo impediva ai Cartaginesi, che facevano largo uso di mercenari, soprattutto libici, di accedere alle forze mercenarie inquadrate fra le legioni e quindi alla tecnologia e alla superiore tecnica militare romana.

Nel dopoguerra Cartagine non aveva virtualmente fondi e non fu in grado nemmeno di pagare le truppe mercenarie smobilitate. Questo portò ad un conflitto interno, la rivolta dei mercenari, vinta dopo durissimi combattimenti da Amilcare Barca.

Espansione romana anche nelle isole del Mar Tirreno (Sicilia, Sardegna e Corsica) dopo la prima guerra punica (264-241 a.C.).

Per Roma, la fine della prima guerra punica segnò l’inizio dell’espansione fuori dalla penisola italiana. La Sicilia, tranne Siracusa, anziché un alleato, divenne la prima provincia romana governata da un pretore. Qualche anno dopo nel 238 a.C. vennero aggiunte Sardegna e Corsica (sempre tolte agli ormai inermi Cartaginesi approfittando della rivolta dei mercenari).

Forse il risultato politico più immediato della prima guerra punica fu la caduta di Cartagine come principale forza navale. Le condizioni poste a Cartagine ne compromisero la situazione economica e impedirono la rinascita della città. Le indennità richieste da Roma causarono un aggravio ulteriore per le finanze dello Stato e forzarono i Cartaginesi verso la ricerca di altre aree economiche per trovare i fondi da versare a Roma.
Tutto ciò causò l’aggressione dell’interno dell’Iberia e lo sfruttamento intensivo delle sue miniere d’argento.

LA CAMPAGNA DI AMILCARE IN SPAGNA

Amilcare era determinato, in contrasto con i propositi conservatori del partito aristocratico di Cartagine, a sviluppare un importante programma di espansione e rafforzamento della città in funzione antiromana. Il generale riuscì a convincere il “Senato” cartaginese a dargli un esercito per conquistare l’Iberia che alcune fonti indicano come un dominio cartaginese perduto. Cartagine fornì solo una forza relativamente ristretta e Amilcare accompagnato dal figlio Annibale, che allora aveva nove anni, intraprese nel 237 la marcia lungo la costa del Nord Africa fino alle Colonne d’Ercole. Gli altri due figli, Asdrubale e Magone, restarono a Cartagine.

Negli anni della sua permanenza in Spagna, Annibale, pur essendo giovanissimo, si trasformò in un soldato. Acquisì quella straordinaria tempra fisica che avrebbe conservato fino a oltre cinquant’anni: a cinquantadue fu infatti in grado di percorrere a cavallo, in sole quattordici ore, i duecento chilometri che separavano Cartagine dal punto di imbarco da cui sarebbe partito, esule, per l’Oriente.

La campagna di Amilcare in Spagna ebbe successo: pur con poche truppe e pochi finanziamenti, egli sottomise le città iberiche scegliendo come base operativa la vecchia colonia punica di Gades, l’odierna Cadice. Egli riaprì le miniere per autofinanziarsi, riorganizzò l’esercito e iniziò la conquista. Fornendo alla madrepatria convogli di navi cariche di metalli preziosi che aiutarono Cartagine nel pagamento dell’ingente debito di guerra con Roma, Amilcare ottenne grande popolarità in patria.

IL GIURAMENTO DI ANNIBALE

Annibale giura odio ai Romani, giuramento di Annibale (dipinto, opera isolata) di Giovanni Battista Pittoni (sec. XVIII).

In questo momento si colloca il celebre episodio del giuramento di Annibale bambino. Secondo la tradizione storiografica iniziata da Polibio e perpetuata da altri storici antichi, prima della partenza per la Spagna, Amilcare avrebbe fatto giurare solennemente al figlio che egli non sarebbe mai stato amico di Roma; l’evento, messo in dubbio dagli storici moderni, è divenuto esemplare per rappresentare simbolicamente il sentimento di odio eterno di Annibale verso Roma che rimase effettivamente l’elemento dominante della vita del condottiero cartaginese.

ANNIBALE ASSUME IL COMANDO

Busto di Asdrubale a Cartagena (Nova Carthago)

Amilcare rimase ucciso durante l’attraversamento di un fiume. Annibale, giovinetto, assistette inerme al tragico evento. Venne scelto come suo successore il marito di sua figlia, Asdrubale. Per otto anni Asdrubale (detto Il Vecchio) comandò le forze cartaginesi consolidando la presenza punica, edificando una nuova città (Carthago Nova – oggi Cartagena). Asdrubale, impegnato nel consolidamento delle conquiste cartaginesi in Iberia, approfittò della relativa debolezza di Roma che doveva fronteggiare i Galli in Italia e in Provenza per strappare il riconoscimento della sovranità cartaginese a sud del fiume Ebro.

Asdrubale morì nel 221 a.C. pugnalato in circostanze misteriose da un Celta. I soldati, a questo punto, acclamarono loro comandante all’unanimità il giovane Annibale. Aveva ventisei anni e ne aveva passati diciassette lontano da Cartagine. Il governo cartaginese confermò la scelta.

“I veterani credevano (nel vedere Annibale) che fosse stato loro restituito Amilcare giovane (il padre), notando nello stesso identica energia nel volto e identica fierezza negli occhi, nella fisionomia del suo viso”

(Livio, XXI, 4.2.).

Annibale iniziò la sua carriera militare attaccando nell’Iberia la popolazione degli Olcadi a sud dell’Ebro, conquistandone la capitale Cartala (Orgaz) e costringendoli a pagare un tributo (221 a.C.). Nel 220 a.C., dopo aver trascorso l’inverno a Nova Carthago carico di bottino, sottomise i Vaccei e occupò le loro città di Hermantica e poi Arbocala, dopo un lungo assedio.

Gli abitanti di Hermantica, dopo essersi riuniti con gli Olcadi, convinsero i Carpetani a tendere ad Annibale una trappola sulla via del ritorno, nei pressi del fiume Tago. Annibale riuscì però a battere i loro eserciti congiunti di ben 100.000 armati. Infatti, intuita l’imboscata la evitò, ma quando le forze nemiche dovettero a loro volta traversare il fiume cariche di armi e bagagli per muovere contro i Cartaginesi, vennero sconfitti.

TUTTO COMINCIA A SAGUNTO

Sagunto oggi. Si può ancora vedere la formidabile rocca a difesa della città.

Sagunto era una fiorentissima città a sud del fiume Ebro a soli 1 000 passi dal mare, ai piedi di un sistema montuoso che forma la linea di confine tra Iberia (a sud) e Celtiberia (a nord). Gli abitanti della zona occupavano un territorio estremamente fertile e certamente il più produttivo di tutta l’Iberia. Le mura che circondavano la città facevano un angolo che si trovava verso la parte dove la pianura è più piatta e aperta, rispetto alle altre parti della città.

Posta in posizione munitissima in cima a un’altura, era alleata di Roma fin dal 226 a.C., quando, come abbiamo visto, Romani e Cartaginesi avevano stipulato un trattato che stabiliva il limite dell’espansione cartaginese in Spagna proprio sull’Ebro e le era stato imposto dai Romani, con la violenza e l’inganno, un governo fantoccio filoromano. Il trattato stabiliva, inoltre, che Romani e Cartaginesi avrebbero dovuto rispettare i reciproci alleati, ed ora i Romani diedero a questa clausola una interpretazione generale estendendola anche alle città che come Sagunto erano divenute appunto (all’insaputa dei Cartaginesi) alleate dopo il trattato.
Nella sostanza, dunque, si trattava di una invasione dei Romani nella sfera di interessi dei Cartaginesi.

Sfere di influenza romane e cartaginesi dopo il Trattato dell’Ebro del 226 a.C.

Annibale non riconosceva la validità di quel trattato e considerava Sagunto come un ostacolo alla sua ambizione di conquistare tutta la penisola iberica. Poiché l’intenzione di Annibale era di colpire al cuore Roma, Sagunto sarebbe servita per rifinire la preparazione dell’esercito di Annibale, ottimizzandone la qualità prima dell’invasione dell’Italia.

L’assedio
Con la motivazione che la città attaccava gli alleati dei Cartaginesi e che si trovava a sud dell’Ebro, rientrando quindi nei territori di competenza dei Punici e non dei Romani, Annibale decise di muovere guerra a Sagunto, assediandola.
I Saguntini chiesero aiuto a Roma, che inviò una delegazione ad Annibale per intimargli di cessare l’assedio. Annibale ignorò l’ultimatum e proseguì le sue operazioni belliche.

L’assedio durò otto mesi, durante i quali i Saguntini opposero una strenua resistenza, nonostante la superiorità numerica e tecnologica dei Cartaginesi. Annibale dovette usare diverse macchine d’assedio, come arieti, torri e catapulte, per sfondare le mura della città, che erano rinforzate da mattoni e pietre. I difensori si difesero con frecce, pietre, fuoco e olio bollente, e fecero anche delle sortite per attaccare i nemici. Alla fine, dopo aver conquistato la rocca, la parte più alta e fortificata della città, Annibale riuscì a espugnare Sagunto. I Saguntini, disperati, preferirono uccidersi tra loro o darsi alle fiamme, piuttosto che cadere in mano ai Cartaginesi. Annibale saccheggiò la città e ne fece schiavi i pochi superstiti.

L’assedio di Sagunto è ricordato anche per una celebre frase che si attribuisce al console romano Marco Fabio Buteone, che, mentre a Roma si discuteva sul da farsi, esclamò: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” – “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata” – (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 7).

Il Senato cartaginese, ricevuta alla fine di marzo 218 a.C. un’ambasceria romana, capeggiata dal princeps senatus Marco Fabio Buteone e tra i quali vi era anche Quinto Fabio Massimo, non accettò le condizioni dei Romani (restituzione di Sagunto e consegna di Annibale). La guerra divenne inevitabile e sarà conosciuta come Seconda guerra punica, la più grande carneficina dell’antichità.

I PREPARATIVI PER LA GUERRA

Lo scopo di Annibale non era tanto la distruzione di Roma, quanto piuttosto il suo indebolimento e la distruzione della federazione italica; obiettivi che egli riteneva di poter conseguire solo portando la guerra direttamente in Italia. Prima di partire per l’invasione della Penisola congedò gli eserciti, ben sapendo che la guerra non sarebbe stata breve e che i suoi soldati avrebbero avuto piacere di rivedere le proprie famiglie prima di iniziare la lunga campagna militare. Comandò poi a tutti loro di presentarsi all’inizio della primavera pronti alla grande impresa.

Un fromboliere delle Baleari.

All’inizio della primavera del 218 a.C. i soldati si radunarono e le truppe di ciascuna popolazione furono passate in rassegna da Annibale. Poi quest’ultimo partì per Gades, dove sciolse i voti fatti a Eracle (Hercules Gaditanus) e si impegnò a farne di nuovi nel caso le imprese fossero state a lui favorevoli. Poi si apprestò a organizzare non solo l’armata che doveva compiere l’invasione dell’Italia, ma anche quelle che dovevano rimanere in Spagna e Africa a difendere i territori cartaginesi. Fu così che stabilì di inviare soldati ispani in Africa e africani in Spagna.

Fu così che ottenne dall’Africa contingenti di arcieri armati alla leggera per la Spagna. Fortificò quindi l’Africa, esposta com’era agli attacchi romani da parte della Sicilia, e vi inviò 13.850 fanti armati di un piccolo scudo rotondo chiamato caetra, 860 frombolieri delle Baleari, 1.200 cavalieri giunti da molte genti, da distribuire tra Cartagine e l’Africa punica. Inviò poi ad arruolare 4.000 giovani scelti che potessero servire sia come difensori in Africa, sia come ostaggi.

Assegnò quindi il comando dell’armata spagnola al fratello Asdrubale, e ne rafforzò il suo contingente militare con reparti africani costituiti da 11.850 fanti, 300 Liguri, 500 soldati delle Baleari, cavalieri libifenici (stirpe mista di Cartaginesi e Africani), 450 Numidi, 800 Mauri, una piccola schiera di Ilergeti e 300 cavalieri spagnoli, oltre a 21 elefanti. Gli diede anche una flotta composta da cinquanta quinqueremi, cinque triremi e due quadriremi, anche se quelle in pieno assetto da guerra, complete quindi di rematori, erano solo trentadue quinqueremi e le cinque triremi.

LA PARTENZA: DA NOVA CARTHAGO ALLE ALPI

La marcia di Annibale da Nova Carthago alle Alpi.

Annibale partì da Nova Carthago. Aveva con sé circa 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e 37 elefanti. Seguì il litorale mediterraneo fino al fiume Ebro, dove si scontrò con le tribù iberiche che si opponevano al suo passaggio. Dopo averle sottomesse, proseguì verso nord, entrando nella Gallia Transalpina.
Qui dovette affrontare la resistenza dei Galli, che temevano la sua invasione. Annibale riuscì a convincere alcune tribù a schierarsi con lui, offrendo loro doni e promesse. Altre, invece, gli si opposero con le armi, come i Volsci, che tentarono di bloccare il suo attraversamento del Rodano. Annibale li sconfisse in una battaglia sulle rive del fiume e poi costruì delle zattere per trasportare il suo esercito e i suoi elefanti sull’altra sponda.
Dopo aver attraversato il Rodano, Annibale si diresse verso le Alpi, la catena montuosa che separava la Gallia dall’Italia.

IL LEGGENDARIO PASSAGGIO DELLE ALPI

Fu una delle sfide più difficili e pericolose della marcia di Annibale e viene ricordata come una delle più importanti imprese belliche della storia.

Una volta raggiunte le montagne, fu costretto ad abbandonare le macchine d’assedio e un certo numero di rifornimenti che lo avrebbero rallentato, dopo di che, con il suo esercito, iniziò l’ascesa. Le Alpi erano coperte di neve e di ghiaccio, e i sentieri erano stretti e scoscesi. Inoltre, Annibale dovette affrontare gli attacchi dei montanari, che cercavano di approfittare della sua situazione di difficoltà. Annibale dovette combattere, negoziare e ingannare per aprirsi la strada tra le montagne. Il freddo e la fatica si fecero certo sentire per uomini e animali acclimatati al sole della costa spagnola e probabilmente non sufficientemente attrezzati per una traversata a tali quote.

La traversata delle Alpi fu un’impresa straordinaria, che richiese circa 15 giorni e che costò ad Annibale la perdita di gran parte del suo esercito. Si stima che solo 20.000 fanti, 6.000 cavalieri e pochi elefanti, che non resistettero alle basse temperature sulle montagne, riuscirono a raggiungere l’Italia.

Anche la stessa salute di Annibale peggiorò a causa delle cattive condizioni ambientali a cui sottomise l’esercito. La sua cecità ad un occhio fu infatti provocata secondo molti dall’eccessivo riverbero della luce solare rifratta dalla neve delle Alpi, che andò peggiorando quando giunse presso delle aree paludose verso sud, vicino al Trasimeno.

L’enigma del punto di passaggio
Il punto esatto in cui Annibale valicò le Alpi è ancora oggetto di dibattito tra gli storici. Alcuni ritengono che sia passato per il Colle della Traversette, altri per il Colle del Monginevro, altri ancora per il Piccolo San Bernardo o il Gran San Bernardo.

Gli ipotetici itinerari seguiti da Annibale durante il valico delle Alpi.

Nell’ipotesi in cui il condottiero cartaginese abbia risalito la val d’Isère, avrebbe potuto raggiungere diversi passi, come il Moncenisio oppure il lontano colle del Piccolo San Bernardo (Cremonis iugum) che viene citato anche da Cornelio Nepote con il nome di Saltus Graius. Anche Tito Livio cita l’Isère, ma subito dopo, come se Annibale avesse fatto una inversione, ci presenta il condottiero cartaginese presso il fiume Durance (Druentia, in latino), altro affluente di sinistra che risalendo la valle del Rodano si incontra prima dell’Isère.
Dalla Durance, scrive Livio, Annibale andò “per vie agevoli” al valico delle Alpi, ma non lo nomina (anch’egli evidentemente non sa quale sia o non ritiene opportuno citarlo, trattandosi di una via forse ben nota). Livio, comunque, esclude il Piccolo San Bernardo: afferma come cosa certa che il primo popolo che Annibale incontrò dopo la discesa dalle Alpi furono i Celti Taurini, mentre se fosse disceso dal Piccolo San Bernardo avrebbe incontrato i Salassi ed altri popoli. Il Monginevro (1.850 m) è uno dei passi che si possono raggiungere dalla Durance. Esso era attraversato da un antichissimo percorso che poi divenne una importante strada romana nel 121 a.C., la via Domizia.

Una più recente ricostruzione, che è compatibile con la risalita per la valle dell’Arc, colloca il passaggio per il Colle dell’Autaret e il Colle d’Arnas nelle Valli di Lanzo e la discesa verso quello che è l’attuale comune di Usseglio.
L’Autaret è un passo a 3 077 m. Erano gli inizi di settembre in concomitanza con la Luna piena ed Annibale riuscì a raggiungere la Pianura Padana, mantenendo quell’effetto sorpresa che voleva ottenere. Appena sopra al passo, dalla Punta Costan è possibile vedere la Pianura Padana verso Orbassano, nella discesa si incontra parte della montagna scavata nella roccia per il passaggio di carri o grandi animali, la piana di Usseglio ben si presta alla ricompattazione dell’esercito ai piedi del passo. La popolazione dei celti Graioceli (Alpi Graie) da sempre nemici dei Romani, ha fornito supporto con guide e vettovagliamento prima della salita nella piana di Bessans e dopo il colle nella piana di Usseglio.

Monumento ad Annibale sulla via francese del Moncenisio.

Altra ipotesi di ricerca, vede Annibale impegnato più a nord alla ricerca di una valico, indirizzato dalle guide degli alleati Boi: avendo verificato che le principali vie d’accesso alla Gallia Cisalpina (Colle del Monginevro, Colle del Moncenisio, Colle del Piccolo San Bernardo) fossero ben sorvegliate dalle truppe romane e alleate, diresse l’esercito più a nord, fino ad Agaunum (oggi Saint-Maurice, Svizzera), prossima al Lago Lemano), dove si sarebbe scontrato con la tribù dei Nantuati, subendo le più gravi perdite nel suo tragitto alpino. Da qui avrebbe risalito la valle dell’Entremont, puntando a sud e giungendo in territorio cisalpino attraverso il Col di Menouve (m 2.801) o per il vicino Col di Annibale, entrambi a est del Colle del Gran San Bernardo. A questo punto, Annibale avrebbe eluso la sorveglianza romana in territorio valdostano attraversando colli minori, quali il Col Flassin (m 2.615) e il Col di Garin (m. 2.805), transitando per la Val di Cogne e giungendo in vista della pianura sui colli del Bardoney (m. 2.833) o dell’Ariettaz (m. 2.939) entrambi con sbocco in Val Soana, garantendosi così un notevole effetto sorpresa.

Un candidato verosimile: il Col delle Traversette

La cima del Colle delle Traversette, con i marchi dei confini tra Francia e Italia scolpiti nella roccia (l’ultimo segnato dai Savoia nel 1798, e quello post-napoleonico del 1825): si può notare come il terreno sia alquanto scabro e pietroso.

Nel marzo 2016, sulla rivista Archeometry a prima firma Bill Mahaney, gli autori hanno utilizzato una combinazione di analisi di chimica ambientale e di genetica microbiologica per documentare la presenza lungo un impervio itinerario alpino di antichi resti di sterco, soprattutto di cavallo, compatibili con il passaggio dell’armata cartaginese, che contava 37 elefanti e circa 15.000 tra cavalli e muli: si tratterebbe della scoperta della prima prova scientifica del passaggio di Annibale in un punto preciso delle Alpi: il Col delle Traversette, un passo a 2.950 m di quota nei pressi del Monviso.
Mahaney e colleghi hanno scoperto una traccia di escrementi animali, per la maggior parte cavalli, a una profondità di circa un metro proprio in corrispondenza di quel passo alpino e in quantità tali da essere compatibili con il passaggio dell’esercito di Annibale.

Il tortuoso ed impervio transito alpino alle Traversette, concludentesi al Pian del Re, all’inizio della Valle del Po.

La datazione al radiocarbonio fa risalire i reperti a circa 2.186 anni fa, cioè proprio al 218 a.C., anno in cui iniziò la seconda guerra punica. Un’ulteriore conferma che si tratti effettivamente dei resti dell’armata di Annibale viene dall’analisi microbiologica: il 70 per cento circa dei microbi presenti nello sterco sono infatti del genere Clostridium, che è molto stabile nel suolo e può sopravvivere per migliaia di anni.

L’inizio della salita alle Traversette: il sentiero comincia a farsi erto e dimensionalmente ridotto.

Sembra così smentita la ricostruzione di Tito Livio, che circa due secoli dopo l’evento scrisse che la discesa cartaginese in Italia avvenne dal Col du Clapier, un passo situato più a nord, alla quota di 2.400 metri, e molto più agevole da attraversare.

Probabilmente, Annibale scelse invece un passaggio più impervio per sfuggire alle imboscate delle popolazioni galliche che abitavano in quelle regioni.

AFRICANO O ASIATICO?

Uno dei misteri irrisolti è dove Annibale prese il suo branco di elefanti. Sicuramente i Cartaginesi non erano gli unici al tempo ad utilizzare questi animali in guerra. Erano utili sia per lanciare cariche contro il nemico, sia per trasportare pesi. Al tempo a Cartagine erano presenti solo due specie di elefanti: gli asiatici e gli africani. Annibale si trovava, quindi, ad una certa distanza rispetto ai territori dove i pachidermi vivevano. Non si sa con certezza quale delle due specie il condottiero utilizzò. Si ritiene, però, che se avesse potuto, avrebbe scelto quelli asiatici, di più piccole dimensioni e più facili da addestrare, perfetti per un viaggio tra le Alpi.

Loxodonta africana cyclotis.

Alcuni storici, tuttavia, sostengono la tesi secondo cui Annibale utilizzò una sottospecie di elefanti africani di foresta (sottospecie Loxodonta africana cyclotis). Questa specie viveva a quel tempo anche sulle alture dell’Atlante (Africa settentrionale), raggiungeva i 2,3 metri di altezza (meno dell’elefante africano della savana) ed era stata addomesticata a scopo bellico dai Numidi. La prova a sostegno, secondo questi studiosi, è il ritrovamento di monete dell’epoca di Annibale raffiguranti un elefante africano.

Moneta cartaginese.

Perché gli elefanti?
Il piano di Annibale, da quello che è stato scoperto dagli storici, fu progettato dal grande generale affinché i Romani si trovassero con le spalle al muro – e con gli elefanti pronti ad infrangere i loro scudi – in un momento di estrema incertezza. Lo stupore infatti scatenato dal sapere che l’esercito cartaginese aveva attraversato le Alpi e che portava con sé quelle terribili armi da guerra che erano gli elefanti a quel tempo indusse i generali e i Senatori romani a compiere molti sbagli…che erano proprio gli obiettivi militari di Annibale.

ANNIBALE ARRIVA IN ITALIA

Fu così che Annibale giunse in Italia cinque mesi dopo la partenza da Nova Carthago e quindici giorni dopo avere valicato le Alpi.

In Gallia Cisalpina Annibale dovette passare inizialmente, prima di raggiungere le tribù alleate degli Insubri e dei Boi, attraverso il territorio dei Taurini che opposero resistenza, ma furono facilmente sconfitti (dopo la presa della loro capitale, nei dintorni dell’odierna Torino), anche perché erano in lotta proprio con gli Insubri. Nel frattempo, Publio Scipione, inviato il fratello Gneo in Spagna con la flotta e parte delle truppe, era ritornato in Italia attestandosi a Piacenza. Tiberio Sempronio Longo, richiamato dal Senato romano, dovette rinunciare al progetto di sbarco in Africa.

Il piano di Annibale era riuscito; la sua audace e inattesa offensiva terrestre costrinse Roma ad abbandonare precipitosamente i suoi piani di attacco diretti a Cartagine che quindi per il momento non dovette temere minacce da parte del nemico.

La sua improvvisa apparizione nella Gallia Cisalpina fece ribellare molte tribù galliche che da poco avevano stipulato un’alleanza con Roma. Un fattore importante nei successi iniziali di Annibale fu la sua capacità di ottenere la neutralità, e in molti casi l’appoggio, delle popolazioni celtiche insofferenti alla dominazione romana. I Romani non avevano idea del tipo di avversario che si trovavano di fronte e credevano di poter battere facilmente un esercito in gran parte raccogliticcio come quello di Annibale. Ma ben presto si resero conto dell’errore. Annibale, cui si erano unite formazioni di Galli, avrebbe conseguito in successione una serie impressionante di vittorie, che ora andremo a vedere.

LA BATTAGLIA DEL TICINO (novembre 218 a.C.)

In due anni, dal 218 al 216 a.C., Annibale inflisse ai Romani quattro sconfitte memorabili, che misero in crisi la Repubblica romana e la costrinsero a cambiare strategia. La prima di queste fu la Battaglia del Ticino.

Il fiume Ticino.

Non siamo in grado di identificare la località esatta presso cui si svolse la battaglia, sappiamo solo che avvenne nel tardo autunno (metà novembre) del 218 a.C. e si presentò come un breve scontro tra le avanguardie dell’esercito punico e dell’esercito romano, che complessivamente contavano 32.000 fanti e 3.000 cavalieri. Tito Livio racconta che i Romani, dopo aver gettato un ponte sul Ticino e costruito un castellum per difenderlo, si accamparono nel territorio degli Insubri a 5000 passi (7,5 km) da Victumuli, dove era già accampato Annibale. Secondo alcuni l’esercito romano si accampò a Turbigo e quello cartaginese oltre Galliate sull’odierna riva piemontese.

Quando i Romani si accamparono a 5000 passi (7,5 km) da Victumuli, dove era accampato Annibale, il condottiero cartaginese convocò l’intero esercito, rammentando loro le ricompense che avrebbero percepito in caso di vittoria: da appezzamenti di terreno privi di tassazione anche per i loro figli, a denaro, fino alla cittadinanza cartaginese per gli alleati che lo avessero voluto o anche la liberazione degli schiavi meritevoli in cambio di quelli che presto avrebbero fatto dopo aver vinto la battaglia.

Manovre preliminari
Publio Cornelio Scipione prese l’iniziativa e partì con la cavalleria (in parte composta da alleati Galli, che al termine della battaglia disertarono, unendosi ad Annibale) e con parte della fanteria leggera formata da frombolieri. Il console romano era partito alla volta degli accampamenti nemici per spiare da vicino quante e quali fossero le truppe dell’esercito cartaginese. Purtroppo, anche Annibale aveva avuto la stessa idea e stava avanzando con la cavalleria per esplorare le posizioni intorno al campo. Nessuno dei due poteva sapere dell’altro, ma l’avanzare gli uni verso gli altri e l’aumentare del nugolo di polvere che sollevarono entrambi gli schieramenti, indicò reciprocamente l’avvicinarsi del nemico.
La cavalleria cartaginese era composta al centro da reparti iberici, mentre le “ali” dello schieramento erano formate da reparti di Numidi (in totale 6.000 armati).

In sostanza si trattò di uno scontro tra le rispettive cavallerie, con Annibale alla testa della cavalleria numidico-iberica e Scipione al comando di quella romano-gallica. I Romani erano disposti con i fanti leggeri e la cavalleria gallica in prima linea e la cavalleria legionaria e alleata in seconda linea; i Cartaginesi avevano al centro la cavalleria iberica e ai lati quella numidica.

La battaglia

L’inizio della battaglia vide i frombolieri dello schieramento romano lanciare un grido e fuggire dietro la seconda linea che doveva costituire da riserva. Le due cavallerie si scontrarono frontalmente, dando vita ad un combattimento che per lungo tempo rimase equilibrato. Quando però i Numidi operarono l’accerchiamento alle “ali”, caricando i soldati romani alle spalle, i velites, che inizialmente avevano evitato l’urto dei cavalieri nemici, vennero schiacciati dall’impeto numida. Alcuni, una volta assaliti alle spalle, si diedero alla fuga, disperdendosi, altri si strinsero attorno al console. Scipione l’Africano, che era poco più che adolescente, riuscì a stento a salvare la vita al padre, gravemente ferito, ma da questa battaglia persa apprese tutta una serie di elementi che impiegò nelle battaglie future.

Scipione salva la vita al padre.

Le conseguenze
La fuga dei frombolieri, che per primi erano stati assaliti dai Numidi, fu molto disordinata. Il resto della cavalleria si strinse intorno al console ferito per proteggerlo “non solo con le armi ma anche con i corpi”, e si rifugiò negli accampamenti ripiegando in modo ordinato. Publio Cornelio Scipione levò il campo e avanzò, attraverso la pianura, in direzione del ponte sul Po, preoccupato di mettere in salvo le sue legioni. I Romani giunsero poi a Placentia (Piacenza) prima che Annibale si accorgesse che erano partiti dal Ticino.

In seguito, dopo due giorni di marcia, Annibale riuscì a far passare il grosso dell’esercito cartaginese a sud del Po, sopra un ponte di barche, essendo i Romani riusciti a distruggere quello che avevano costruito. E mentre i Romani, con il console sconfitto e ferito, furono obbligati a ritirarsi nella colonia romana di Piacenza, tutte le popolazioni celtiche della regione, vennero ad omaggiare il comandante cartaginese per la vittoria riportata, offrendo la loro alleanza, rifornimenti e collaborazione militare.

LA BATTAGLIA DELLA TREBBIA (18 dicembre del 218 a.C.)

Il fiume Trebbia nei cui pressi fu combattuta la battaglia.

Nel dicembre dello stesso anno Annibale ebbe l’opportunità di mostrare la sua capacità strategica quando attaccò al fiume Trebbia, vicino a Piacenza, le forze di Publio Cornelio Scipione, cui si erano aggiunte le legioni di Tiberio Sempronio Longo.

Schieramento

  • Cartaginesi – Il centro dei Cartaginesi era formato dai Balearici (in genere arcieri e frombolieri) e le truppe armate alla leggera (8.000 armati) e la fanteria pesante (circa 20.000 combattenti, tra Iberi, Celti e Libi). A destra e a sinistra dello schieramento, davanti alle ali di cavalleria (composte da oltre 10.000 cavalieri), furono posti gli elefanti.
  • Romani – Sempronio dovette far arrestare la sua cavalleria, che si era parzialmente dispersa all’inseguimento dei Numidi. I cavalieri si posero, come d’uso, ai lati della fanteria, la quale si stava organizzando al centro dello schieramento: 18.000 fanti romani secondo Livio (per Polibio 16.000), oltre a 20.000 socii latini e un numero imprecisato di Galli Cenomani (i soli rimasti fedeli), secondo Tito Livio, formavano l’esercito dei consoli. Ma la cavalleria era composta di soli 4.000 elementi.

Lo scontro
I primi ad entrare in azione furono i frombolieri balearici. Subito dopo l’inizio della battaglia la fanteria leggera romana entrò in difficoltà. I fanti erano infatti bagnati e infreddoliti, e avevano inoltre sprecato molti dardi contro i cavalieri Numidi e, quelli che restavano erano bagnati e quindi inservibili. Anche i cavalieri erano nelle stesse condizioni. Non appena i velites cominciarono a ritirarsi in seconda fila, sfilando ai lati dello schieramento, per lasciare posto alle truppe più pesantemente armate (principes e hastati), entrò in azione la cavalleria cartaginese, più riposata e superiore di numero, che pressò le ali romane, soverchiandole.

La cavalleria romana ormai stanca ed inferiore per numero (4.000 armati contro 10.000), dovette cedere terreno anche perché sotto il costante lancio dei Balearici, e sotto attacco degli elefanti che, usciti dalle ali estreme, seminarono il terrore fra i cavalli, non solo per il loro aspetto, ma anche per l’insolito odore.
Fu così che le “ali” dello schieramento romano rimasero sguarnite, e la cavalleria numida e i lanceri cartaginesi poterono approfittarne.

Con i fianchi sotto pressione, il centro dello schieramento non poté combattere contro i nemici che aveva di fronte. Solo la fanteria pesante era riuscita, per il proprio coraggio e fino a quel momento, a reggere il corpo a corpo e, in quel settore, lo scontro sembrava fosse in equilibrio. Del resto, Annibale aveva condotto in combattimento truppe fresche, che poco prima si erano rifocillate, mentre i Romani avevano le membra infreddolite per il passaggio del fiume ed erano stanchi per il digiuno.

Mappa della battaglia della Trebbia. L’immagine riporta il corso antico del fiume Trebbia, che come si può capire dalle traduzioni dei testi di Tito Livio e Polibio, sfociava nel Po ad Est rispetto a Piacenza e non a Ovest come è adesso.

Entrò allora in azione Magone con i suoi duemila uomini scelti che si erano rifugiati all’interno del letto del fiume, piombando all’improvviso alle spalle dei Romani, che si trovarono in ulteriore difficoltà, suscitando in tutto l’esercito romano grande scompiglio. Infine, le ali di cavalleria dei Romani, pressate ai fianchi dai fanti leggeri e davanti dai cavalieri e dagli elefanti dello schieramento cartaginese, volsero in fuga verso il fiume che avevano attraversato con orgogliosa sicurezza.

Annibale allora ordinò che gli elefanti fossero spinti verso l’ala sinistra, dove erano schierate le truppe alleate dei Galli Cenomani. Qui provocarono immediatamente una fuga precipitosa, aggiungendo una nuova sconfitta e suscitando terrore nello schieramento romano.

Il centro dello schieramento romano fu sconvolto da dietro da Magone e i suoi, e chi stava in seconda e terza linea fu ucciso senza difficoltà. Solo la prima linea riuscì, non solo a resistere, ma a spezzare lo schieramento punico, inserendosi sanguinosamente fra i Celti e i Libici. Una volta tagliati fuori dal grosso dell’esercito romano, dovettero però rinunciare a portare soccorso ai colleghi; dei 16.000 legionari e 20.000 alleati si salvarono circa 10000 uomini, stanchi, affamati, bagnati, ma compatti, riuscirono a ritirarsi in buon ordine a Piacenza.

La ritirata dei Romani.

Dei resti dell’esercito romano una parte fu sterminata nei pressi della Trebbia dai cavalieri e dagli elefanti di Annibale, mentre indugiava a ripassare il corso del fiume gelido.

Considerazioni
Tatticamente la Battaglia della Trebbia anticipò quella di Canne. L’eccellente fanteria pesante romana si incuneò nel fronte dell’esercito cartaginese, ma i Romani furono accerchiati ai fianchi dalle ali della cavalleria numidica e respinti verso il fiume, dove furono sorpresi da un contingente di truppe opportunamente nascosto da Annibale lungo la riva.

Nel 2012, in località Canneto di Gazzola, nei pressi del ponte di Tuna che attraversa il fiume Trebbia, nella zona dove si svolse la battaglia, è stata posta una statua di un elefante da guerra cartaginese e di due soldati per commemorare l’evento: non abbiamo ben capito se lo scopo sia stato quello di valorizzare il territorio, teatro di un’importante battaglia, o di celebrare il nemico di Roma, Annibale…

La statua in vetroresina in località Canneto di Gazzola.

Le conseguenze
Dopo avere reso sicura la sua posizione nel Nord Italia con questa battaglia Annibale posizionò le sue truppe per l’inverno fra i Galli, il cui zelo per la sua causa cominciò a scemare a causa dei costi del mantenimento dell’esercito punico. Nella primavera del 217 a.C. Annibale decise di trovare a sud una base di operazioni più sicura. Con le sue truppe e l’unico elefante sopravvissuto all’inverno, Surus, attraversò quindi l’Appennino senza incontrare opposizione. Lo attendevano grosse difficoltà nelle paludi dell’Arno, dove perse molte delle sue truppe per i disagi e le malattie e dove egli stesso perse un occhio.

LA BATTAGLIA DEL LAGO TRASIMENO (21 giugno 217 a.C.)

La valle lungo il lago Trasimeno in cui Annibale sorprese i Romani.

Le residue forze armate romane, scampate alle due disastrose sconfitte, vennero trasferite a Cremona e Piacenza, per svernare in luogo sicuro. Nel frattempo, a Roma si tennero i Comizi che elessero come consoli per l’anno 217 a.C. Gaio Flaminio Nepote, plebeo, e Gneo Servilio Gemino, patrizio.

Gaio Flaminio Nepote.

Le rispettive strategie
Il Senato decise che la difesa si sarebbe dovuta spostare entro i confini della Repubblica. Ritenendo la Valle Padana non difendibile e le colonie di Piacenza e Cremona, appena fondate, al sicuro da assedi cartaginesi, il Senato suddivise le forze e assegnò a ciascuno dei consoli un’area di azione: Flaminio doveva controllare i passi e i valichi in Etruria, mentre Servilio doveva controllare l’area di Rimini e l’accesso alla via Flaminia. Per eseguire il proprio compito, ogni console avrebbe avuto a disposizione due legioni “rinforzate” (con un numero maggiore di effettivi rispetto alla norma), a cui si affiancavano contingenti di socii, per un totale di circa 25.000 unità. Erano attive altre sette legioni: due a Roma, due in Spagna, due in Sicilia, una in Sardegna. Altre forze erano state inviate a Taranto e furono allestite ulteriori sessanta quinqueremi. Ulteriori rinforzi vennero inviati da Gerone, re di Siracusa, storico alleato di Roma, che consistevano in cinquecento arcieri cretesi e mille peltasti.

Annibale, d’altro canto, intendeva spostare la guerra entro i confini della Repubblica di Roma. La strategia che Annibale aveva in mente per vincere la guerra era, come abbiamo già chiarito, di staccare le popolazioni italiche federate da Roma e di allearle a sé, incrementando così truppe e risorse a propria disposizione, diminuendo al tempo stesso quelle di Roma, portandola al collasso e costringendola alla resa. La propaganda e le battaglie vinte sarebbero state gli strumenti per raggiungere la capitolazione economico-politica della Federazione, minata all’interno dalle forze centrifughe, catalizzate dall’intervento cartaginese.

La provocazione
Giunto in terra etrusca senza trovare opposizione e dopo aver fatto riposare presso Fiesole i propri soldati ed essersi informato sulle caratteristiche della regione, sulle forze romane e sul loro comandante, Annibale decise di spingere il console Flaminio a battaglia, prima che questo potesse congiungersi con il collega e le sue armate.
Le forze cartaginesi, pertanto, iniziarono a mettere a ferro e fuoco l’Etruria, depredandola, per evidenziare le debolezze romane, creare loro imbarazzo politico con gli alleati federati e provocare il sanguigno Flaminio. Ma il console non abboccò preferendo limitarsi ad evitare di perdere il contatto con l’esercito nemico, facendo in modo che il condottiero cartaginese non potesse marciare liberamente verso Roma o verso le truppe di Servilio, mettendolo in seria difficoltà. L’obiettivo da perseguire era, dunque, quello di ricongiungere le legioni dei due consoli e solo allora dar battaglia.

Scendendo la Val di Chiana in direzione di Roma, Annibale fece accelerare il passo alle sue truppe e giunse con alcune ore di anticipo in prossimità del lago Trasimeno: decise quindi di deviare verso est il suo percorso, in direzione di Perugia, poiché aveva individuato, in una valle compresa tra le estreme pendici dei monti di Cortona e il lago, i luoghi adatti per tendere un’imboscata alle legioni romane. Annibale qui si accampò con la fanteria pesante su una collina e dispose gli altri reparti sulle pendici dei colli circostanti, nascosti in modo da sorprendere ai fianchi l’esercito romano e circondarlo.

Il console romano arrivò presso le rive del lago quando il sole stava per tramontare e fu costretto ad accamparsi e ad attendere il giorno seguente per riprendere l’inseguimento, ignaro che l’accampamento nemico si trovasse lì vicino, essendo separati solo dai bassi colli di Cortona che si protendono verso il lago.

Si prepara la trappola

Di fronte alla via, che correva da ovest verso est a non molta distanza dal lago, Annibale fece erigere un campo, aperto e visibile, sul colle che si poneva di traverso rispetto alla strada, e lì collocò la fanteria pesante ibero-libica (circa 15–18.000 uomini). Sull’arco di colline a ovest del campo dispiegò su una linea continua i fanti celtici (circa 15.000), i quali si trovavano lungo il crinale, e la cavalleria (circa 8–10.000), la quale occupava le posizioni tra Celti e fanteria pesante. Queste truppe erano celate alla vista dalla ricca vegetazione. La fanteria leggera e i frombolieri delle Baleari (complessivamente 8.000 uomini) vennero condotti a est, dietro la collina su cui Annibale era accampato, ben nascosti alla vista di chi procedeva da ovest, in modo che, al segnale di Annibale, potessero chiudere la via di fuga lungo le sponde del Trasimeno.

Annibale voleva prendere i Romani in una morsa in cui la fanteria pesante era il fulcro, visibile al nemico, mentre le ganasce, celate, avrebbero dovuto chiudersi sui fianchi dei sorpresi nemici, fino a un loro completo accerchiamento.

Il giorno seguente, alle prime luci dell’alba, i Romani iniziarono a lasciare il campo e, attraverso la strettoia, entrarono allungati nella valle il cui fondo era occupato da una fitta nebbia, mentre dalle colline si aveva la vista libera. La loro marcia non era stata anticipata da alcuna ricognizione dei luoghi da parte di esploratori e, quindi, i legionari si mossero inconsapevoli delle minacce che incombevano su di loro. La nebbia era un fattore, per quanto imprevisto, che giocava a favore dei piani di Annibale. L’esercito romano, superata la strettoia, entrò in una vallata più ampia, circondata da alte e ripide colline, avendo alle spalle il lago. Quando le avanguardie romane raggiunsero i paraggi del colle su cui erano accampate le fanterie pesanti nemiche, si avvidero solo della minaccia visibile e cominciarono a organizzarsi, mentre chi seguiva era ancora in marcia.

La battaglia
Quando Annibale ritenne che la maggior parte dell’armata romana fosse all’interno della vallata, dette il segnale di attacco generale contemporaneo.

In breve tempo, Flaminio e i suoi soldati capirono di essere accerchiati, udendo il clamore che proveniva da ogni lato. I fanti celtici attaccarono il fianco sinistro della colonna romana in marcia lungo il crinale e spinsero i soldati verso le sponde del lago e al suo interno. La cavalleria in carica travolse il fianco sinistro romano che aveva superato il Malpasso, mentre la fanteria leggera, aggirando il colle dietro cui era celata, chiuse la via di fuga ai Romani nel senso della marcia e, fatta una conversione verso nord, si abbatté sul fianco destro della colonna in marcia.

I legionari erano in quel momento in maggior parte impreparati alla battaglia, ancora in assetto di marcia, e non ordinati secondo la solita disposizione hastati-principes-triarii. Mancavano i consueti automatismi e organizzazione: era impossibile dare e ricevere comandi nella confusione totale, in mezzo alla nebbia. Ciascuno dovette combattere per proprio conto.

La disposizione hastati-principes-triarii.

I Romani riuscirono, nonostante le difficoltà, a resistere per tre ore finché il console, costantemente attaccato dai nemici, mentre battendosi con valore cercava di portare aiuto ai propri soldati in difficoltà, venne ucciso da un cavaliere celtico, della tribù degli Insubri, di nome Ducario, che volle vendicare i morti e i dolori arrecati alla sua gente da Flaminio durante il suo primo consolato.

Il disastro

La battaglia del Lago Trasimeno, 217 a.C. · Ernest Prater. Private Collection / Bridgeman Images.

A questo punto l’esercito romano sbandò e si lanciò disperatamente in ogni direzione, cercando la salvezza: verso i monti e verso il lago. Molti soldati perirono entro le acque del Trasimeno: cercando una via di fuga, trovarono la morte per via della cavalleria lì appostata, oppure affogarono trascinati dal peso delle armature mentre tentavano di nuotare. Alcuni soldati romani si uccisero a vicenda per non cadere prigionieri.

Non tutti i Romani intrappolati perirono nella mischia. Circa 6.000 di loro, che componevano l’avanguardia, riuscirono a sfondare le linee nemiche e a inerpicarsi sulle colline, pensando di trovare altri nemici, invano. Una volta che si era diradata la nebbia, essi videro dalla loro alta posizione che i compagni nella sottoposta valle erano stati annientati. I 6.000 si diressero, allora, quanto più velocemente possibile, verso un villaggio etrusco che si trovava nei paraggi e lo raggiunsero. Il giorno successivo vennero attaccati dalla fanteria leggera cartaginese guidata da Maarbale e si arresero, viste le difficoltà in cui versavano, dietro promessa di aver salva la vita. Annibale decise di confermare la promessa fatta dal suo sottoposto agli Italici, per guadagnare la fiducia di queste popolazioni, e trattenne i cittadini romani come prigionieri.

Secondo Tito Livio, sul campo di battaglia furono 15.000 i soldati romani caduti e presi prigionieri, mentre 10.000 superstiti tornarono alla spicciolata a Roma. I Cartaginesi ebbero 2.500 caduti, a cui si aggiungevano ulteriori perdite tra i feriti. Annibale fece cercare il corpo di Flaminio ma non venne ritrovato. Secondo Polibio, 15.000 soldati romani furono fatti prigionieri e altrettanti furono uccisi. Il numero dei soldati cartaginesi caduti si attestò a 1.500 uomini, soprattutto tra le file celtiche.

Sintetizzando, l’esercito cartaginese conseguì sul campo una vittoria piena, avendo colto la maggior parte delle truppe romane ancora in ordine di marcia nel fondo della valle.

Le conseguenze
Data la relativa vicinanza del campo di battaglia e l’esito drammatico, a Roma la sconfitta non venne minimizzata, come invece era avvenuto dopo la Battaglia della Trebbia. Quando il pretore Marco Pomponio annunciò nel Foro: “Siamo stati sconfitti in una grande battaglia“, la popolazione cadde nella disperazione.

La colonna donata dalla Città di Roma in memoria della Battaglia del Trasimeno.

Il Senato stava cercando di trovare una soluzione quando, dopo tre giorni, venne informato che i 4.000 cavalieri inviati da Servilio in aiuto del collega e delle sue truppe erano stati in parte uccisi e in parte catturati, forse nei paraggi di Assisi o Spello, dai cavalieri e fanti leggeri comandati da Maarbale.

Annibale, nonostante la vittoria conseguita, non ottenne le sperate proposte di alleanza da parte delle popolazioni italiche del centro Italia. I federati si strinsero a Roma, a eccezione di alcuni gruppi sparuti, e un tentativo cartaginese di conquista della colonia latina di Spoleto si concluse con un nulla di fatto. Data la situazione, il condottiero cartaginese valutò non conveniente dirigersi verso Roma, ma attraversò l’Umbria e il Piceno, fino a raggiungere il Mare Adriatico, ove fece riposare e curare i propri uomini e animali. Lungo il tragitto l’esercito cartaginese fece gran bottino, devastò le campagne e vennero uccisi molti uomini in età da armi. Annibale si diresse quindi verso l’Apulia, per proseguire i propri piani in luoghi a lui più favorevoli.

Dal punto di vista militare Annibale decise di far adottare dalle proprie fanterie pesanti gli armamenti romani raccolti nei campi di battaglia dopo la Trebbia e il Trasimeno. Le fanterie pesanti cartaginesi, pertanto, passarono dalla lancia d’urto alla spada, comune nel Mediterraneo occidentale. Si determinò, quindi, il necessario passaggio da una formazione a falange a una manipolare.

LA PROBLEMATICA IDENTIFICAZIONE DEL SITO DELLA BATTAGLIA

Le testimonianze delle fonti storiche hanno lasciato dei dubbi negli studiosi di epoche successive, motivo per il quale si sono venute sviluppando varie teorie relative al sito della battaglia, identificato nei secoli dagli studiosi in luoghi diversi, distanti tra loro anche 20 km. Le difficoltà riscontrate dagli studiosi derivavano soprattutto dalla descrizione complessa dei luoghi fatta da Polibio e dalla scarsità dei dati sulla posizione all’epoca delle sponde del Lago Trasimeno.

Philipp Clüver, nella sua opera postuma Italia antiqua, individuò come locus pugnae ad Thrasymenum lacum la valle compresa tra Monte Gualandro e Montigeto. A Clüver si aggiunsero altri studiosi (Ciatti, Pellini), finché, tra la seconda metà dell’800 e la prima del ‘900, molti storici moderni ritennero di dare sistematicità a questa ricostruzione: i principali sono Nissen, Fuchs, Pareti, De Sanctis.

La battaglia secondo la teoria di Fuchs/Pareti/De Sanctis.

Nei primi anni del Novecento, Johannes Kromayer elaborò la sua teoria, sistematizzando quanto avevano già ipotizzato altri studiosi, quali Arnold, Dodge, Henderson, Voigt. Secondo lo studioso tedesco la battaglia avvenne nella stretta striscia di terra tra lago e colline compresa tra Passignano e Montecolognola, lungo la costa nord-orientale del lago. Dopo aver effettuato un sopralluogo dei luoghi e studiato alcune mappe di viabilità antica (soprattutto di epoca rinascimentale), Kromayer ipotizzò che il livello del Trasimeno all’epoca della battaglia fosse più alto di quanto lo fosse ai suoi giorni, cosa che impediva il passaggio al Malpasso inondato dalle acque, e che la strada di comunicazione tra val di Chiana e Perugia passasse sulla sella di Monte Gualandro. Egli ritenne di trovare a Passignano il défilé attraverso cui marciarono entrambi gli eserciti.

Alcuni studiosi riscontrarono che il luogo che meglio si addiceva alle descrizioni storiche fosse la vallata di Sanguineto, compresa entro l’arco di colline partenti dal Malpasso e terminanti con lo sperone di Tuoro. Altre testimonianze di questa teoria si hanno nelle opere dell’abate Bartolomeo Borghi, geografo e matematico (1750-1821) che argomentò il proprio pensiero nei suoi scritti e lo rappresentò in alcune mappe avvicinandosi molto alle conclusioni raggiunte da Brizzi e Gambini (2008). Tra Otto e Novecento su questa linea di lettura si sono espressi Grundy (1896) e Sadée (1909), che ipotizzano il campo cartaginese posizionato a Sanguineto; e Reuss (1906), il quale posiziona il campo punico a Tuoro. Questa teoria fu contestata soprattutto a causa delle dimensioni, ritenute limitate, per consentire lo schieramento di un numero elevato di soldati.

Piano della Battaglia guadagnata da Annibale contro i Romani l’anno di Roma 536 li 23 di Giugno mappa disegnata da Bartolomeo Borghi nel 1794.

Giancarlo Susini nel periodo 1960-64 ravvivò il dibattito sul sito della battaglia pubblicando in più riprese i risultati delle proprie ricerche, confutando le due tesi allora più accreditate (Kromayer, Fuchs/Pareti/De Sanctis). L’opera dello studioso fu notevole perché riaprì questioni ritenute risolte grazie al suo approccio multidisciplinare all’argomento, comprendente varie fonti e strumenti di indagine, quali archeologia, idrologia, aerofotogrammetria e toponomastica. Nella sua opera Susini si dichiarò convinto che il sito della battaglia fosse da identificare essenzialmente nella valle di Sanguineto, e che presso il colle di Tuoro ci fosse un secondo crinale, in corrispondenza delle vicine sponde del Trasimeno.

La Battaglia del Trasimeno secondo la teoria di G. Susini (1960).

Nel primo decennio del Duemila si sono avuti vari contributi che hanno permesso di determinare, in via definitiva, le dimensioni e il livello del Lago Trasimeno all’epoca della battaglia. Il ritrovamento di reperti di epoca etrusco-romana e di depositi di materiali di scarico all’interno del Trasimeno e i risultati di una serie di campagne di rilievo geologico eseguite dal CNR di Bologna hanno dimostrato che il lago in tale periodo aveva mediamente una superficie leggermente minore rispetto alla situazione attuale, al netto di periodi di piena/secca dovuti a eccezionale quantità/scarsità di precipitazioni. Unendo il lavoro degli studiosi precedenti, soprattutto quello di Susini, a queste nuove fondamentali informazioni, Giovanni Brizzi ed Ermanno Gambini hanno quindi pubblicato nel 2008 una nuova teoria, compatibile con le risultanze scientifiche e archeologiche acquisite, oltre che con le fonti storiche maggiori.

La battaglia del Trasimeno secondo la teoria di Brizzi e Gambini.

I CAMBIAMENTI NELL’ORDINAMENTO MILITARE ROMANO

La posizione delle truppe annibaliche tagliava fuori da Roma il console superstite e le sue schiere, per cui venne deciso di prendere una decisione estrema, non adottata da lungo tempo: nominare un dittatore. In assenza del console, detentore del potere di nomina, furono incaricati del compito in via eccezionale i comizi centuriati, i quali nominarono dittatore Quinto Fabio Massimo, il Verrucoso, in seguito detto “Cunctator“, il Temporeggiatore, e gli affiancarono come maestro della cavalleria il plebeo Marco Minucio Rufo: si minò così da subito la dittatura, poiché Rufo non era subordinato a Fabio Massimo, e nacque in breve tempo una diarchia.

I Romani adottarono diverse misure militari, che ebbero profonde ripercussioni nella loro storia successiva: prolungarono le cariche dei magistrati, per assicurare continuità di comando e strategia; allungarono la durata del servizio militare; venne aumentato il numero di legioni attivo, venne abbassato il censo minimo per essere arruolati, anzi vennero arruolati anche i liberti, gli schiavi liberati. Questi furono i primi passi che portarono, successivamente, a creare il soldato romano professionale.

Il Centro di documentazione permanente su Annibale e la battaglia del Trasimeno è un museo interattivo e multimediale in cui è possibile conoscere e approfondire la storica battaglia del 217 a.C. utilizzando molteplici e avanzate tecnologie.

Nella seconda parte (da Quinto Fabio Massimo alla Battaglia di Canne) vedremo come la saggia tattica attendista di Quinto Fabio Massimo si fosse rivelata corretta: essa, forse, avrebbe evitato il più grande disastro militare di Roma, Canne. Vi aspettiamo.

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