Con questo articolo inauguriamo una nuova serie dedicata ai grandi nemici di Roma. Essa si articolerà in sette episodi, ognuno dedicato ad un personaggio che si è distinto per la sua pericolosità nei confronti di Roma. Purtroppo, motivi editoriali ci hanno costretto ad operare una scelta sofferta, omettendo molte figure, anche di rilievo come Brenno e Porsenna, che si sono imposte nell’immaginario collettivo come veri e propri flagelli per l’Urbe e l’Impero.
Cominceremo il primo episodio nientemeno che con Pirro, uno fra i più ambiziosi condottieri dell’età ellenistica, tanto che Annibale lo ritenne il più astuto degli strateghi. Egli fu segnato dal mito omerico di Achille e, più concretamente, da quello di Alessandro Magno a cui era legato da un nesso di parentela: erano infatti cugini di secondo grado. Alessandro I d’Epiro, zio materno di Alessandro Magno, era anche zio di Pirro, in quanto suo fratello Eacide era padre di Pirro. Pirro era quindi imparentato con Alessandro attraverso la famiglia degli Eacidi, che a sua volta era imparentata con gli Argeadi, la famiglia di Alessandro Magno.
Segnato da una gioventù difficile, conobbe per ben due volte l’esilio dal quale tornò sempre con vittoriosa audacia. La sua ambizione di creare un grande regno lo portò a scontrarsi con la nascente potenza del Mediterraneo: Roma. L’Urbe, infatti, stava cercando di espandersi verso i ricchi territori della Magna Grecia, suscitando le preoccupazioni di una fra le sue ricche città, Taranto che, proprio per questo, chiese aiuto a Pirro anche per riscuotere il debito di un favore che la città gli aveva fatto anni prima, avendogli fornito appoggio per la riconquista di Corcira.
Pirro sbarcò così in Italia portando con sé degli animali che i Romani non avevano mai visto: i temibili elefanti indiani. Fu uno scontro tra due diversi modi di combattere: da una parte l’imbattibile e compatta falange macedone di Pirro, monolitica e massiccia, irta di migliaia di lunghe lance, dall’altra lo schieramento manipolare romano, agile e dinamico, mutuato dai Sanniti.
Gli eserciti consolari inviati a fermare Pirro furono sconfitti in due battaglie, di Heraclea e Ascoli di Puglia, quest’ultima resa famosa per aver originato l’espressione “Vittoria di Pirro”.
Credendo di avere la vittoria in pugno, inviò il suo ambasciatore Cinna a Roma per dettare le condizioni della pace (la resa?), che furono respinte dal Senato, reso orgoglioso da una potente orazione di Appio Claudio Cieco.
Il culmine delle Guerre Pirriche, che durarono cinque anni, fu raggiunto con la Battaglia di Maleventum, nella quale i Romani, ormai messi a punto sistemi anti-elefante e scoperto come scompaginare la falange macedone, costringono Pirro al ritiro, evento che comportò il cambio di nome da Maleventum al più appropriato Beneventum.
Pirro sottovalutò l’organizzazione romana, rimanendo allibito di fronte all’ordine dei suoi accampamenti, pensando che avrebbe trovato non uno Stato con una fortissima coscienza nazionale, ma dei barbari mercenari che si sarebbero venduti al miglior offerente.
Tornato precipitosamente in Epiro Pirro, da instancabile condottiero, si lanciò in nuove imprese guerresche, finendo la sua vita, come vedremo, in modo indegno e inglorioso, tragicamente ridicolo.
Andiamo quindi a vedere nel dettaglio le gesta di questo straordinario personaggio, nel primo episodio di questa serie, per la Rubrica “La Stele di Rosetta”, pubblicato in esclusiva per IQ. Buona lettura.

INDICE DEI CONTENUTI:
GLI EACIDI E L’UNIFICAZIONE DELL’EPIRO
ROMA, LA PERICOLOSA POTENZA NASCENTE
IL CASUS BELLI: L’ASSALTO ALLA FLOTTA ROMANA
L’OLTRAGGIO AGLI AMBASCIATORI ROMANI
L’ARMA SEGRETA DI PIRRO: GLI ELEFANTI, I CARRI ARMATI DELL’ANTICHITA’
LA BATTAGLIA DI HERACLEA (280 a.C.)
LE CONSEGUENZE DELLA BATTAGLIA DI HERACLEA
L’ELOQUENZA DI APPIO CLAUDIO CIECO
LA BATTAGLIA DI ASCOLI DI PUGLIA (279 a.C.)
LE CONSEGUENZE DELLA BATTAGLIA DI ASCOLI: LA “VITTORIA DI PIRRO”
LA STRANA ALLEANZA TRA ROMA E CARTAGINE
LA CAMPAGNA IN SICILIA: PIRRO CONTRO I CARTAGINESI (278 – 276 a.C.)
PIRRO E LA SUA SCONFITTA STRATEGICA
LE CONSEGUENZE: ROMA SOTTOMETTE LA MAGNA GRECIA
CONCLUSIONE: LA FIGURA DI PIRRO NEL TEMPO
L’EPIRO

“Epiro” deriva dal latino Epirus che deriva a sua volta dal greco attico Ἤπειρος (Ḗpeiros) – in dorico Ἄπειρος, Ā́peiros – con il significato di “terraferma”, “zona interna”. È una regione geografica e storica del sud-est dell’Europa, facente parte dell’Albania meridionale e della Grecia nord-occidentale.
Si trova tra la catena montuosa del Pindo e il Mar Ionio, estendendosi dalla baia di Valona ai monti Acrocerauni a nord fino al golfo di Arta e alle rovine della città romana di Nicopoli d’Epiro nel sud. È divisa tra la regione dell’Epiro nel nord-ovest della Grecia e le prefetture di Argirocastro, Valona e Berat nel sud dell’Albania.
Regione scoscesa e montuosa, l’Epiro era uno dei luoghi dove rimane tutt’oggi una delle culle della civiltà greca e sede del santuario di Dodona, l’antico oracolo greco e il secondo più prestigioso dopo Delfi.
GLI EPIROTI

A differenza di molti altri Greci di questo tempo, che vivevano all’interno o intorno alle città-stato, gli abitanti dell’Epiro vivevano in piccoli villaggi e il loro modo di vivere era estraneo a quello delle poleis del sud della Grecia.
Gli Epiroti, che parlavano un dialetto greco del nord-ovest, diverso da quello dei Dori delle colonie sulle isole Ionie e portatori di nomi per lo più greci, come testimonia l’epigrafia, sembra siano stati considerati con un certo disprezzo da alcuni scrittori classici. Lo storico ateniese del V secolo a.C., Tucidide, li descrive come “barbari” nel suo Storia della guerra del Peloponneso, così come Strabone nella sua Geografia. Altri scrittori, come Erodoto, Dionigi di Alicarnasso, Pausania, e Eutropio, li descrivono come Greci.
GLI EACIDI E L’UNIFICAZIONE DELL’EPIRO
Gli Eacidi, appartenenti alla dinastia eacide dell’antico Epiro, furono principi dei Molossi che facevano risalire la loro origine a Neottolemo un eroe greco, figlio di Achille, che penetrò in Troia, uccise Priamo ed ebbe Andromaca come preda di guerra. Sul suo ritorno si hanno leggende diverse, tra cui quella che lo vide, in Epiro, diventare re dei Molossi.

Il primo sovrano degli Eacidi storicamente accertato fu Tarripa (Θαρύπας), dal 430 a.C., che portò a termine l’unificazione del regno. Quest’ultimo si distingueva per la gestione collegiale del potere in una diarchia, che si conservò dalla morte di Alceta I, col governo comune dei suoi due figli (Aribba e Neottolemo I).
Gli Eacidi si allearono con il sempre più potente regno di Macedonia, in parte contro la minaccia comune delle incursioni degli Illiri la Macedonia era circondata da un numero di popolazioni spesso ostili, le cui frequenti incursioni facevano certamente parte della chimica che fece dei macedoni un popolo di “persone dure”.
Poco si sa delle relazioni della Macedonia con le tribù Epirote, fino al IV secolo, quando divenne politica dei re macedoni allearsi con queste tribù occidentali vicine in parte per formare una resistenza comune alle incursioni illiriche.
Gli sforzi degli Eacidi ottennero impulso dal matrimonio di Filippo II di Macedonia con la loro principessa Olimpiade. Nel 334, mentre Alessandro Magno, figlio di Filippo e Olimpiade, attraversava l’Asia, suo zio, il sovrano molosso Alessandro, attaccò l’Italia meridionale, dove fu infine bloccato da Roma e ucciso in battaglia intorno al 331. Alla morte di Alessandro il Molosso, le tribù epirote formarono una coalizione su base paritaria ma con il re molosso al comando delle loro forze militari. Il più grande re molosso di questa coalizione era Pirro.
IL PERSONAGGIO PIRRO

Pirro nacque intorno al 318 a.C. in Epiro. Figlio del re Eacide – cugino di Olimpiade, madre di Alessandro Magno – ancora infante Pirro era stato portato in salvo presso Glaucia (re dei Taulanti, una delle più importanti tribù d’Illiria) quando il padre fu esiliato dai sudditi in rivolta e morì di morte violenta.
L’esilio
Trascorsa l’infanzia in Illiria, Pirro rientrò in Epiro circa dodici anni più tardi, quando vide coagularsi intorno a sé le milizie dei partigiani di Eacide, grazie alle quali si appropriò della corona. Un risultato effimero: quattro anni dopo, approfittando di un suo nuovo soggiorno in Illiria, l’Epiro gli si sollevò contro, inducendolo nuovamente all’esilio presso uno fra i più potenti diadochi di Alessandro, Antigono Monoftalmo.

Pirro e Demetrio
Particolarmente legato al figlio di questi, Demetrio Poliorcete, fu in questo frangente che il giovane epirota iniziò a costruire la sua reputazione di soldato d’eccezione; sopravvissuto alla Battaglia di Ipso (301 a.C.), che vide Antigono sconfitto e ucciso dalle milizie congiunte di altri due generali alessandrini, Seleuco e Lisimaco, Pirro rimase al fianco di Demetrio, fino al punto da fungere da ostaggio durante le trattative con Tolomeo Soter, proclamatosi re d’Egitto.
Il ritorno in Epiro
Pirro seppe guadagnarsi la benevolenza di Tolomeo, arrivando a sposarne la figlia Antigone; forte della posizione raggiunta, nel 298 a.C. si adoperò per il proprio rientro in Epiro, in funzione del quale stipulò con lo zio Neottolemo un accordo di coreggenza. Pochi mesi dopo Pirro assassinò Neottolemo, assumendo pienamente la corona; fu probabilmente in questa fase convulsa del regno che, per ottenere il supporto dei maggiorenti epiroti, prospettò ai sostenitori una stagione di conquiste.
Nel 295 a.C., Pirro trasferì la capitale del regno nella città marittima di Ambracia. Essendo morta Antigone, si risposò con Lanassa, figlia di Agatocle, re di Siracusa, che gli portò in dote Corcira.
Le prime guerre
A metà degli anni Novanta del III secolo a.C. Pirro tentò di intervenire nella contesa dinastica sulla Macedonia. Il suo brillante supporto militare a uno dei due fratelli contendenti, Alessandro, venne frustrato dallo schierarsi di Lisimaco a favore dell’altro, Antipatro; gli orizzonti di guerra fecero propendere tutti per una soluzione diplomatica.
Il quadro venne scompaginato nel 294 a.C. da Demetrio Poliorcete, che assassinò Alessandro proclamandosi re. Pirro intraprese quindi una guerra contro il suo antico alleato con la conseguente invadendo e occupando l’Acarnania e l’Amfilochia e, sia pure brevemente, la Tessaglia. L’anno seguente Demetrio rispose conquistando Corcira, approfittando dell’invito di Lanassa, moglie di Pirro, in rotta con il marito per la sua poligamia, ad occupare l’isola e a sposarla.
Nel 289 a.C. Demetrio gli concesse le regioni conquistate in cambio della pace e Pirro accettò ma l’anno seguente, mentre Demetrio subiva ad Anfipoli l’attacco di Lisimaco, Pirro ruppe il precedente trattato e invase la Macedonia ma la sua epica vittoria nella regione dell’Etolia non fu risolutiva.
Il conflitto ebbe termine solo nel 288 a.C., quando Demetrio optò per la fuga, permettendo all’epirota, che grazie al proprio carisma aveva legato a sé anche le truppe macedoni, di ottenere la corona di Macedonia congiuntamente a Lisimaco. Un altro risultato effimero: la durata del suo regno è oggetto di controversie. Dexippo e Porfirio, infatti, affermano che Pirro tenne la corona di Macedonia per appena sette mesi: pur riuscendo a conquistare anche il resto delle terre un tempo possedute da Demetrio, ne venne scacciato da Lisimaco il quale nel 284 a.C. poté brevemente invadere lo stesso Epiro, approfittando dell’assenza di Pirro, che decise di ripiegare nel suo regno evitando così lo scontro.
Fu sullo sfondo di questi orizzonti costretti che, sullo scorcio degli anni Ottanta del II secolo a.C., ricevette una richiesta di aiuto da parte di Taranto. La più ricca città greca d’Italia era alle prese con una minaccia barbara sempre più difficile da contenere: Roma.
ROMA, LA PERICOLOSA POTENZA NASCENTE

Dopo il superamento del pericolo costituito dalla presenza delle popolazioni galliche a Nord, temporaneamente respinte grazie alla Battaglia dell’Aniene, le vittorie su Volsci ed Equi e gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma poté avviare, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica. La vittoria romana nelle tre guerre sannitiche (343-341; 326-304; 298-290 a.C.) e nella guerra latina (340 a.C.-338 a.C.) assicurò dunque all’Urbe il controllo di buona parte dell’Italia centro-meridionale; le strategie politiche e militari attuate da Roma – quali la fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane (come quella di Venosa, in Lucania) e la costruzione della via Appia – dimostravano la sua intenzione di nutrire mire espansionistiche anche verso il Meridione.
A sollecitare l’avanzata verso Sud erano interessi di tipo economico e culturale; a frenarla contribuiva invece la presenza di una civiltà, quella della Magna Grecia, ad alto livello di organizzazione, militarmente, politicamente e culturalmente capace di resistere all’espansione romana.
La strategia della Repubblica si basava sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici.
Non è possibile determinare con precisione quali fossero i rapporti commerciali che univano Roma con i centri della Magna Grecia, ma risulta probabile una certa compartecipazione di interessi commerciali tra l’Urbe e le città greche della Campania, testimoniata dall’emissione, a partire dal 320 a.C., di monete romano-campane.

Lo sviluppo economico che interessò l’Urbe tra IV e III secolo a.C. portò, comunque, ad un progressivo avvicinamento di Roma all’area magnogreca, ed ebbe, dunque, anche pesanti ripercussioni sugli aspetti istituzionali, culturali e sociali della vita nell’Urbe. Il contesto culturale romano fu fortemente influenzato dalla penetrazione della filosofia pitagorica, presto accettata dalle élite aristocratiche, e dal contatto con la storiografia greca, che modificò profondamente la produzione storiografica romana.
Al periodo tra il IV secolo e il III secolo a.C. risalgono infine alcuni mutamenti nelle istituzioni militari: al tradizionale schieramento oplitico-falangitico basato sulla centuria, si sostituì l’ordinamento manipolare (tipico dell’esercito sannitico, al quale i Romani devono molto), che rendeva più agile e articolato l’impiego tattico della legione romana. Contemporaneamente, alla suddivisione delle milizie secondo la classe di appartenenza, prevista dall’ordinamento serviano, si sostituì quella secondo il criterio dell’anzianità, e la base del reclutamento fu allargata, per la prima volta tra il 281 e il 280 a.C., anche ai proletari.

La successiva alleanza di Roma con Napoli nel 327 a.C. e la fondazione della colonia romana di Luceria nel 314 a.C. preoccuparono non poco i Tarantini che temevano di dover rinunciare alle loro ambizioni di conquista sui territori dell’Apulia settentrionale a causa dell’avanzata romana.
TARANTO, LA CITTA’ SPARTANA

Fondata dagli Spartani nell’VIII secolo a.C. col nome di Taras, grazie alla sua posizione strategica al centro dell’omonimo golfo, alla fertilità del suo territorio e al commercio, la città divenne una delle più importanti póleis della Magna Grecia. Diede i natali agli intellettuali Archita, Aristosseno, Livio Andronico, Leonida ed Eraclide di Taranto nonché ad atleti le cui gesta divennero famose in tutto il mondo greco, come Icco e il cosiddetto Atleta di Taranto.
Come racconta Strabone nella sua Geografia, Taranto disponeva di un porto grande ed efficiente, del perimetro di 100 stadi, e chiuso da un gran ponte. La città era situata su una penisola, a differenza di oggi, il cui suolo era poco elevato, tanto che le barche venivano facilmente trasportate per terra da una sponda all’altra della penisola stessa. Tale territorio si innalzava un po’ all’altezza dell’acropoli, dove ancora oggi ci sono le colonne dell’antico tempio di Poseidone per il quale Taranto ebbe un grande culto.

La struttura sociale della colonia sviluppò nel tempo una vera e propria cultura aristocratica, la cui ricchezza proveniva, probabilmente, dallo sfruttamento delle risorse del fertile territorio, che venne popolato e difeso da una serie di “phrourion“, piccoli centri fortificati.
Il periodo di maggiore floridezza fu vissuto dalla città durante il governo settennale di Archita, che segnò l’apice dello sviluppo tarantino ed il riconoscimento di una superiorità politica sulle altre colonie dell’Italia meridionale.

Dal 343 a.C. al 338 a.C. i Tarantini si scontrarono con i Lucani, rimediando una sconfitta che culminerà con la morte del re spartano Archidamo III, accorso in aiuto della città magno-greca. Nel 335 a.C. giunse in soccorso della città Alessandro I il molosso contro i Lucani, i Bruzi ed i Sanniti, riuscendo a conquistare le città di Brentesion, Siponto, Eraclea, Cosentia e Paestum.
Nel 303 a.C., allo scopo di frenare l’espansione della città di Taranto, i Lucani si allearono con Roma, la quale tuttavia preferì concordare la pace con la città magno-greca; nei trattati fu inclusa una clausola in base alla quale veniva vietato alle navi romane di spingersi più ad oriente del promontorio Lacinio.
THURII CHIEDE AIUTO A ROMA

Nuovi attacchi da parte dei Lucani costrinsero, ancora una volta, i Tarantini a chiedere aiuto ai mercenari della madrepatria: fu ingaggiato questa volta un certo Cleonimo di Sparta (303-302 a.C.), che fu, però, sconfitto dalle popolazioni italiche, forse sobillate dagli stessi Romani. Il successivo intervento di un altro paladino della grecità, Agatocle di Siracusa, portò di nuovo l’ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi (298-295 a.C.), ma la fiducia dei Greci delle piccole città dell’Italia meridionale in Taranto e Siracusa iniziò a svanire a vantaggio di Roma, che allo stesso tempo si era alleata con i Lucani ed era risultata vittoriosa a settentrione su Sanniti, Etruschi e Celti.
Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., i Lucani, un tempo alleati di Roma, si ribellarono insieme ai Bruzi ed iniziarono ad avanzare nel territorio di Thurii devastandolo; gli abitanti della città, consci della propria debolezza inviarono due ambasciate a Roma – e non a Taranto come di consueto – per chiedere aiuto, la prima nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C.
Solo in questa seconda circostanza Roma inviò il console Gaio Fabricio Luscino il quale, posta una guarnigione a Thurii, avanzò contro i Lucani sconfiggendo il loro principe Stenio Stallio, come riportano i Fasti triumphales. A seguito di questo successo, le città di Reggio, Locri e Crotone chiesero di essere poste sotto la protezione di Roma, che inviò una guarnigione di 4 000 uomini a presidio di Reggio. La Repubblica si proiettava, ormai, verso il Meridione d’Italia.
IL CASUS BELLI: L’ASSALTO ALLA FLOTTA ROMANA

L’aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarantini come un atto compiuto in violazione dell’accordo che le due città avevano firmato diversi anni prima: sebbene le operazioni militari romane fossero state compiute per via di terra, Thurii gravitava pur sempre sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il Capo Lacinio; Taranto temeva dunque che il suo ruolo di patronato nei confronti delle altre città italiche venisse meno.
Roma, tuttavia, in aperta violazione degli accordi, forse per la forte pressione esercitata dai negotiatores (uomini d’affari romani o italici impegnati in una varietà di attività economiche private) o forse perché gli accordi stessi erano ritenuti decaduti, nell’autunno del 282 a.C. inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci imbarcazioni da osservazione nel golfo di Taranto che provocò i tarantini; le navi, guidate dall’ammiraglio Lucio Valerio Flacco o dall’ex console Publio Cornelio Dolabella, erano dirette a Thurii o verso la stessa Taranto, con intenzioni amichevoli.
I Tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste in onore del dio Dioniso, in preda all’ebbrezza, scorte le navi romane, credettero che esse stessero avanzando contro di loro e le attaccarono: ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire; tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati, altri mandati a morte.
Dopo l’attacco alla flotta romana, i Tarantini, resisi conto che la loro reazione alla provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell’atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata assieme agli esponenti dell’aristocrazia locale.
L’OLTRAGGIO AGLI AMBASCIATORI ROMANI
Gli avvenimenti subito successivi all’attacco tarantino testimoniano la cautela e l’accortezza del gruppo dirigente romano, che, pur senza sottovalutare la situazione, preferì tentare un’azione diplomatica piuttosto che muovere subito guerra a Taranto: da Roma, non appena si ebbe notizia di quanto era accaduto, si decise infatti di inviare a Taranto un’ambasceria guidata da Postumio per chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano responsabili dell’attacco alle navi romane: dal rispetto di tali condizioni sarebbe dipeso il futuro svolgimento delle relazioni tra le due potenze.

I diplomatici romani, giunti a Taranto, furono ricevuti non senza riserve nel teatro da cui i Tarantini avevano scorto le navi attraversare il golfo; il discorso di Postumio, tuttavia, fu ascoltato con scarso interesse da parte dell’uditorio, più attento alla correttezza della lingua greca parlata dall’ambasciatore romano che alla sostanza del messaggio. Vittime di risate di scherno da parte dei Tarantini, che si prendevano gioco dell’eloquio scorretto e delle loro toghe dalle fasce purpuree, gli ambasciatori furono condotti fuori dal teatro; nel momento in cui ne stavano uscendo, tuttavia, un uomo chiamato Filonide, un ubriacone popolano chiamato “Kotylè” (ciotola) per via del suo sgraziato aspetto fisico, si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l’intento di oltraggiarli gridando: “E’ questa l’ambasciata che dovete portare a Roma”
A tale atto, che ledeva il diritto all’inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di suscitare lo sdegno della folla dei Tarantini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l’atto di Filonide, li apostrofò, secondo Appiano di Alessandria, promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide, o dicendo, secondo la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, “Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!“. Detto ciò, gli ambasciatori lasciarono dunque la città di Taranto per rientrare in Roma, dove Postumio mostrò ai concittadini la toga sporcata da Filonide.
LA DICHIARAZIONE DI GUERRA
Gli ambasciatori giunsero a Roma, senza portare risposte, nel 281 a.C., nei giorni in cui i nuovi consoli, Lucio Emilio Barbula e Quinto Marcio Filippo, entravano in carica; Postumio riferì l’esito della sua ambasceria e l’offesa che aveva subito: i consoli, dunque, convocarono il Senato, che si riunì per più giorni dall’alba fino al tramonto, per decidere sul da farsi. Un certo numero di senatori riteneva poco prudente intraprendere una spedizione militare contro Taranto quando le ribellioni dei popoli italici non erano ancora state del tutto sedate, ma la maggior parte preferì che la decisione di dichiarare guerra a Taranto venisse messa subito ai voti: risultarono essere in maggioranza coloro che volevano che Roma si impegnasse all’istante in un’azione militare, e la popolazione ratificò la decisione senatoria.
I Tarantini, impauriti dall’arrivo dell’esercito consolare romano (dopo averne deriso gli ambasciatori, ricordiamolo), si divisero tra coloro che sarebbero stati intenzionati ad accettare le condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che avrebbero invece voluto dare inizio alle ostilità.
TARANTO CHIEDE AIUTO A PIRRO
Questo, quindi, il complesso contesto storico che ha determinato lo sbarco di Pirro in territorio italico.
Quando il console Barbula cominciò a devastare le campagne circostanti la città, i Tarantini, potenti in campo economico, ma assai deboli sul piano militare e quindi consci di non poter affrontare a lungo l’assedio romano, cercarono nuovi aiuti questa volta in Epiro, richiedendo l’intervento del re Pirro e questi non si lasciò sfuggire l’occasione di inserirsi nelle faccende dei Greci d’Italia con la speranza di fondare senza sforzi un regno in Italia e di diventare il protettore di tutta la Magna Grecia, dalla Puglia alla Sicilia. Inoltre, Pirro non poteva respingere la richiesta di aiuto fatta da Taranto poiché quest’ultima aveva dato un contributo importante per la conquista di Corfù e per la riconquista della Macedonia, persa nel 285 a.C.
Incoraggiato nell’impresa dalle predizioni dell’oracolo di Delfi, nonché dall’aiuto dei re ellenistici, Pirro sbarcò in Italia nel 280 a.C. dando il via alle cosiddette Guerre Pirriche, che sarebbero andate avanti per cinque anni.
LE FORZE IN CAMPO

Epiro Il re epirota schierava circa 22400 uomini e 20 elefanti:
- 14.500 fanti addestrati alla formazione a falange
- 2.400 cavalieri (comprendenti 500 uomini dello Squadrone Reale)
- 2.000 arcieri (Cilici e Misi)
- 500 frombolieri (Cyrti)
- 20 elefanti da guerra indiani
Tra i rinforzi già inviati dall’Epiro al servizio di Taranto, secondo Plutarco ci furono:
- 3.000 peltasti mercenari Etoli, Atamani e Acarnani, giunti al comando di Cinea, amico di Pirro e suo fidato ambasciatore.
Italioti
Sappiamo che gli Italioti (ovvero i Greci della Magna Grecia, da non confondere con la Sicilia greca) conferirono a Pirro il comando supremo. Tra le promesse che adularono e convinsero il re d’Epiro a giungere in soccorso degli Italioti, fu l’offerta di porsi generale di 350.000 armati e 20.000 cavalieri.
I rinforzi effettivamente aggregati furono:
3.000 opliti (“Scudi Bianchi”) e 300 cavalieri di Taranto, 3 000 peltasti e 300 cavalieri mercenari arruolati tra i Messapi.
Dopo aver lasciato a Taranto il presidio di 3.000 uomini con il suo fidato ambasciatore Cinea, Pirro si spostò verso ovest, accampandosi nei pressi di Heraclea con un esercito forte di circa 25.500 uomini.
Repubblica romana
I Romani furono costretti a dividersi su due fronti, poiché la guerra etrusca a settentrione non era ancora stata portata a termine. Nel 280 a.C. l’esercito romano del fronte meridionale, schierato contro Pirro, era composto da circa 20.000 armati ed affidato al console di quell’anno Marco Valerio Levino, così suddivisi:
- 2 legioni di cittadini romani e 2 Alae di Socii (alleati italici, che erano posti alle ali dello schieramento), composte ciascuna da 4.200/5.000 fanti per un totale di 16.800/20.000 fanti;
- 600 cavalieri legionari e 1.800 alleati, pari a 2.400 complessivi.

A questo esercito consolare andrebbe aggiunto un contingente di 4.000 armati, inviato a Reggio nel 280 a.C., a protezione della città alleata.
Per un totale di circa 20.000 uomini, all’incirca pari all’entità dell’esercito di Pirro.
TATTICA DEI ROMANI
I Romani avevano previsto l’imminente arrivo di Pirro e mobilitarono otto legioni. Queste comprendevano circa 80.000 soldati divisi in quattro armate:
- la prima armata, comandata da Barbula, si stanziò a Venosa per impedire ai Sanniti e ai Lucani di congiungersi con le truppe di Pirro;
- la seconda armata fu schierata a protezione di Roma nell’eventualità che Pirro tentasse di attaccarla;
- la terza armata, comandata dal console Tiberio Coruncanio, aveva il compito di attaccare gli Etruschi per scongiurare che si alleassero con Pirro;
- la quarta armata, comandata da Publio Valerio Levino, avrebbe dovuto attaccare Taranto ed invadere la Lucania.
L’ARMA SEGRETA DI PIRRO: GLI ELEFANTI, I CARRI ARMATI DELL’ANTICHITA’

Prima di affrontare la prima battaglia che vide Pirro vittorioso nei confronti di Roma, vogliamo aprire una parentesi dedicata agli elefanti, utilizzati dagli eserciti orientali come arma e sbarcati per la prima volta in Italia proprio con Pirro, dove terrorizzarono i soldati romani che si trovarono davanti tali mastodontici pachidermi.
Gli elefanti da guerra erano esclusivamente animali maschi, scelti perché più veloci, più pesanti e più aggressivi delle femmine. La capacità di domare gli elefanti nacque nella Valle dell’Indo (Pakistan) circa 4.000 anni fa. In realtà venivano catturati selvatici e poi domati e addestrati per vari usi, soprattutto gli elefanti asiatici per le attività agricole.
Per quel che si sa l’uso degli elefanti per la guerra iniziò attorno al 1100 a.C., come è menzionato in diversi inni in sanscrito. Sicuramente vennero introdotti nell’esercito persiano da Dario I (550 – 486 a.C.), proprio perché aveva conquistato la valle dell’Indo e scoperto il loro uso.
Gli elefanti utilizzati dagli antichi nelle battaglie campali si possono certamente paragonare, per il loro utilizzo strategico, ai moderni mezzi corazzati chiamati carri armati; gli elefanti adibiti a scopo bellico e opportunamente attrezzati avevano lo scopo psicologico di gettare terrore nelle file nemiche alla sola vista e nell’udire i barriti degli animali opportunamente aizzati dal guidatore, ma lo scopo pratico all’inizio della battaglia era quello di aprire varchi negli schieramenti avversari a seguito della carica sfrenata degli elefanti dando poi in tal modo la possibilità ai propri soldati che seguivano gli elefanti, di entrare nello schieramento avversario prima che questo potesse riorganizzarsi.

Questa tattica di utilizzare gli elefanti nelle battaglie campali fu probabilmente utilizzata per la prima volta in India dove gli elefanti erano animali autoctoni, da qui il loro utilizzo si propagò poi in Persia e dalla Persia in Grecia.
Gli elefanti da guerra erano provvisti di un guidatore chiamato Cornac seduto subito dietro la testa dell’ animale, di una placca in metallo che proteggeva la testa dell’ animale e forse anche di protezioni laterali atte a proteggerne i fianchi, ma cosa più importante, per aumentare la forza dirompente dell’ elefante, di una torretta posta sul dorso, in pratica un castello in miniatura dove trovavano posto due o tre soldati che lanciavano frecce e lance contro i soldati nemici: questi ultimi, oltre a cercare di arginare la carica furiosa dell’animale opportunamente aizzata dal guidatore, dovevano allo stesso tempo proteggersi dal lancio di proiettili che cadevano loro addosso da oltre tre metri di altezza. La prima volta che si veniva a contatto con loro, provocava terrore e l’impossibilità di opporsi a questa carica furiosa e assordante, mentre la terra sotto i piedi tremava, aumentando lo sgomento di chi doveva difendersi: fu così per i Romani ad Heraclea.
La battaglia di Heraclea fu la prima occasione in cui vennero utilizzati tali animali, e fu vinta dai Tarantino-Epiroti proprio grazie all’uso degli elefanti, armi potenti e micidiali per la prima volta affrontate dai Romani. Fu la potenza e la stazza di questi enormi pachidermi a garantire a Pirro la vittoria su Roma.
Le difficoltà logistiche
Tuttavia, alcune domande ce le dobbiamo porre: in quale porto e in che numero sbarcarono questi pachidermi? Pirro era diretto a Taranto ma una furiosa tempesta primaverile disperse però l’imponente flotta, che non doveva essere inferiore alle 400 navi. Poche imbarcazioni però affondarono e la maggior parte del corpo di spedizione poté essere salvato, sebbene fosse disperso un po’ ovunque.
In ogni caso, se non a Taranto, la flotta epirota non avrebbe potuto che gettare le ancore in quel di Brindisi. Per trasportare ventiseimila uomini e alcune migliaia di animali, tra cui un branco di elefanti, servivano dalle cento alle centocinquanta navi. Oltre Taranto, solo Brindisi offriva un approdo naturale, sicuro e vasto a sufficienza per una flotta di quelle dimensioni. A parte il fatto che per sbarcare macchine da guerra e animali serviva un porto attrezzato con banchine e relativi servizi. Si pensi solo alla difficoltà tecnica di far prendere terra a un elefante. le fonti parlano di venti bestie. Un numero comunque inadeguato per un esercito così poderoso. Forse gli elefanti erano assi di più ma perirono a causa di quella tempesta.
Come si faceva ad imbarcare un elefante su una nave dell’epoca? Non lo si può mettere sottocoperta e sul ponte ostacolerebbe i movimenti di manovra, per non dire del beccheggio innaturale che potrebbe imprimere alla nave in caso di irrequietezza, anche quando legato. Forse gli elefanti di Pirro viaggiavano a bordo di zatteroni trainati. Poi il mare si fece grosso e rivoltò quelle rudimentali chiatte.
La possibile provenienza
Gli elefanti africani sono più grandi di quelli asiatici e, a differenza di questi ultimi, possiedono un’arma in più: zanne imponenti. Però, come far attraversare a bestie così imponenti un braccio di mare vasto come il Mediterraneo? È il caso di ricordare che Annibale preferì per i suoi elefanti la fatica stremante di un viaggio via terra piuttosto che il rischio di un viaggio per mare; precauzione inutile giacché quelle povere creature morirono tutte di freddo superando prima i Pirenei e poi le Alpi.
Gli elefanti di Pirro, più piccoli e privi di zanne, provenivano da un area che se oggi va dall’India all’Indocina, un tempo poteva estendersi anche all’odierno Iran. Di là, aggirando il Mar Nero, carovane di animali addestrati potevano raggiungere committenti nell’area balcanica. Nessuno arrischiava per mare ‘merce’ tanto preziosa.
Le armi anti-elefante
Tali pachidermi, tuttavia, non erano invincibili. Un’arma anti-elefante si trovò nel maiale. Plinio il Vecchio riporta come “gli elefanti vengano spaventati dal più piccolo stridio di un maiale” (VIII, 1.27).

Si ricorda inoltre come un assedio di Megara sia stato infranto dopo che i Megaresi avevano imbrattato di olio dei maiali, dato loro fuoco e spinti verso la massa degli elefanti da guerra del nemico. Gli elefanti da guerra si imbizzarrirono per il terrore dei maiali incendiati e stridenti. In alcuni casi il problema veniva prevenuto allevando gli elefanti insieme a dei maiali, in modo da abituarli al loro stridio.
Anche lo scrittore romano Vegezio nella sua opera Epitoma rei militaris riporta, in un capitolo del terzo libro, numerosi esempi, attrezzi e stratagemmi da utilizzare contro gli elefanti: per esempio uccidere i conducenti utilizzando i frombolieri o spaventarli col fuoco. Inoltre, gli elefanti si muovono in maniera assai impacciata su un terreno sconnesso o montagnoso.
Inoltre, gli elefanti potevano impazzire per il clamore o il dolore delle ferite e diventare così ingovernabili da creare scompiglio tra le stesse fila degli attaccanti. Nella battaglia di Zama, ad esempio, Annibale ebbe con sé ottanta elefanti, undici dei quali furono poi portati a Roma, ma la carica degli elefanti cartaginesi risultò inefficace. Annibale lanciò la carica degli elefanti ma ormai i Romani avevano imparato come trattare quelle enormi bestie; con trombe acute e alte grida spaventarono i bestioni che, imbizzarriti, si volsero contro la cavalleria numidica dell’ala sinistra cartaginese. Qualche elefante che non si era spaventato si avventò contro la fanteria romana. I manipoli degli hastati romani, utilizzando lo spazio libero, semplicemente si fecero da parte lasciando passare i bestioni lasciandoli alla mercé di princepes e velites che colpendoli di fianco e davanti li costrinsero alla fuga. Questi elefanti si avventarono contro l’altra ala della cavalleria cartaginese.
LA BATTAGLIA DI HERACLEA (280 a.C.)

Heraclea (l’odierna Policoro, in Basilicata) fu fondata dai coloni Tarantini e Thurioti intorno al 434 a.C., dopo una guerra che le aveva viste nemiche. La città è situata su un’altura tra i fiumi Agri e Sinni sui resti della città di Siris, e nel 374 a.C. fu scelta come capitale della Lega Italiota al posto di Thurii che era caduta in mano ai Lucani. Era una città fidata ed una sicura base di approvvigionamento per gli Epiroti.
Alle forze del re si aggiunsero piccoli contingenti di scarso valore bellico forniti da Taranto. Altri aiuti, messi a disposizione dai Lucani in guerra con Turi e Roma e dai Sanniti, eterni rivali dei Romani, si sarebbero presto messi in marcia. Ma nel frattempo il console Levino invase la Lucania impedendo alle armate dei Lucani e dei Bruzi di unirsi all’esercito di Pirro.
Non potendo più contare su questi rinforzi, Pirro decise di accamparsi e di attendere i Romani nella piana situata tra le città di Heraclea e di Pandosia, nei pressi della riva sinistra del Sinni, per cui intendeva sfruttare il fiume a proprio vantaggio contando sulle difficoltà che i Romani avrebbero avuto per attraversarlo.
Poco prima dell’inizio della battaglia, Pirro inviò alcuni diplomatici al cospetto del console romano Levino per proporgli una mediazione nel conflitto tra Roma e le colonie della Magna Grecia. I Romani rigettarono la proposta e si accamparono anch’essi nella piana, sulla riva destra del fiume Sinni. Pirro, udito ciò, cavalcò lungo il fiume per spiare i nemici. Il re non sapeva nulla dei Romani e certamente, con l’innato orgoglio di tutti i Greci di appartenere ad un popolo superiore, doveva giudicarli una nazione rozza ed incivile. Si dice tuttavia che, osservando da lungi il campo romano, si meravigliò della disciplina militare romana e dell’ordine con cui era disposto l’accampamento e, voltandosi verso Megacle, uno dei suoi più fidati ufficiali, esclamò lealmente:
“Questa disposizione dei barbari, Megacle, a me non pare barbara, ma vedremo le opere loro”
(Plutarco, Vita di Pirro, 16.)

Prima fase
Pirro decise di non fare la prima mossa. Levino, dal canto suo, non disponeva di rifornimenti sufficienti per mantenere a lungo quella posizione, per cui decise di non tardare ulteriormente l’azione e di attraversare il fiume per dare battaglia.
Dionigi di Alicarnasso e Plutarco riferiscono che all’alba del 1º luglio 280 a.C. i Romani attraversarono il Sinni: la fanteria guadò il fiume davanti alle truppe di copertura di Pirro, mentre la cavalleria scelse un guado più lontano. La cavalleria di Pirro si mosse tardivamente e non riuscì a sorprendere le truppe romane durante il guado; pertanto, la cavalleria romana giunse indisturbata contro il fianco della fanteria greca lasciata in copertura. Le truppe greche furono costrette a ritirarsi per sfuggire all’accerchiamento.

In seguito all’attacco romano, Pirro ordinò alla cavalleria macedone e tessala di contrattaccare la cavalleria romana e, emulando Alessandro, si mise a combattere tra le prime file, mostrando un certo disprezzo verso l’abilità militare del nemico. Il resto della sua fanteria, composta da mercenari, arcieri e fanteria leggera, si mise in marcia. Durante lo scontro uno dei capitani di Pirro, Leonato il Macedone, fu attratto da un Romano, Oblaco Volsinio (chiamato in Floro, “Ossidio” e in Plutarco “Oplax“), Prefetto della cavalleria alleata romana dei ferentani, il quale a suo dire non perdeva mai di vista il re Pirro. Difatti pochi istanti dopo Oblaco spinse il cavallo e, abbassando la lancia, aggredì Pirro. Nello scontro entrambi caddero da cavallo, dopo aver gettato le insegne. Leonato intervenne in aiuto di Pirro, mentre Oblaco fu bloccato e ucciso dai soldati greci. In conseguenza di ciò, Pirro chiamò a sé Megacle e decise di scambiare con quest’ultimo i panni e le armi, continuando così a combattere come un normale soldato e scongiurando altri rischi.
Seconda fase
Quel che di solito si trascura è che nel 280 i Romani vennero per la prima volta a contatto con la falange, l’imbattibile schieramento macedone reso celebre da Filippo II nella battaglia di Cheronea nel 334. La falange comprendeva sei taxis di 1.500 uomini l’una, per un totale di circa 9.000 falangiti. Non vi è ragione per supporre che quella di Pirro avesse un differente numero di soldati, e quindi il re aveva con sé due falangi (18.000 uomini circa).
Per la prima volta nella storia venero a confronto due diverse disposizioni tattiche: l’ordine chiuso greco e lo schieramento mobile romano; massiccio e monolitico il primo, irto di migliaia di punte di lancia, dinamico ed agile il secondo.

Gli opliti, disposti in formazione a falange, giunti in prossimità del nemico effettuarono ben sette cariche nel tentativo di sopraffare i legionari romani. Riuscirono a sfondare le prime linee nemiche ma non poterono avanzare ulteriormente a meno di non rompere la propria formazione. Una simile eventualità avrebbe esposto gli opliti ai colpi dei Romani, per cui furono costretti a restare sulla loro posizione.
Lo scambio dei panni e delle armi fu essenziale per salvaguardare la vita del re. I Romani continuarono a prendere di mira colui che portava le armi reali finché un cavaliere di nome Destro assalì e uccise Megacle; lo spogliò quindi delle vesti reali e corse verso il console Levino, annunciando a tutti di aver ucciso Pirro. Dopo tale notizia i Romani, galvanizzati dalla morte del re epirota, sferrarono un deciso contrattacco, mentre i Greci sbigottiti cominciarono a perdersi d’animo. Pirro, avendo inteso il fatto, si mise a correre per il campo e a capo scoperto si fece riconoscere dai suoi soldati.
Per riprendere in mano le sorti della battaglia, Pirro mandò in campo gli elefanti da guerra che, con la loro grossa stazza, crearono subito scompiglio tra le file romane. Inoltre, questi animali portavano in groppa una torretta con soldati che potevano a loro volta colpire dall’alto i nemici. I Romani non avevano mai visto questi animali prima di allora e li scambiarono per i grandi buoi tipici del posto; per questo furono chiamati “buoi lucani“. Gli elefanti travolsero le legioni romane creando panico tra gli uomini e i cavalli, anche a causa dell’enorme massa, bruttezza e odore, e li terrorizzarono con il loro barrito. Plutarco, infatti, riferisce: “…Alla fine, poiché soprattutto gli elefanti premevano sui Romani, e i cavalli, anche a distanza, non potevano sopportarne la vista e portavano via i cavalieri, Pirro lanciò la cavalleria tessalica contro i nemici in disordine, li mise in fuga e ne fece una grande strage“.

Ciò permise ai Greci di conquistare il controllo del campo di battaglia e di entrare nell’accampamento romano. Nelle battaglie dell’antichità, la presa dell’accampamento nemico rappresentava una grande disfatta per l’avversario; si suppone inoltre che i Romani abbiano abbandonato nell’accampamento materiali da guerra e armi: i legionari superstiti, forse seguendo la via Nerulo-Potentia-Grumentum, si ritirarono a Venosa probabilmente dopo essersi liberati del proprio equipaggiamento. Fu tuttavia soprattutto grazie al sopraggiungere della notte che i Romani e il console Levino poterono salvarsi da una carneficina ancor peggiore. Il Senato non volle tuttavia togliere il comando al console sconfitto.
Pirro fu molto orgoglioso di aver domato il nemico con il concorso delle sole sue forze e dei Tarantini, senza l’intervento dei Sanniti e dei Lucani. Lo conferma l’iscrizione di un suo ex voto offerto al santuario di Dodona dopo la battaglia di Heraclea. Dalla durezza dello scontro sostenuto e dal valore mostrato dall’avversario, tuttavia, ricavò un sincero rispetto ed una cavalleresca ammirazione verso il nemico, sentimento molto raro negli antichi, e quasi sconosciuto presso i Greci.
Le perdite
Nel riportare le perdite subite dagli schieramenti, Plutarco cita due fonti molto divergenti tra loro:
- lo storico greco Geronimo di Cardia, che registra 7.000 vittime tra le file romane e 4.000 tra quelle greche;
- Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale, invece, le perdite furono molto più elevate: 15.000 morti tra i Romani e 13.000 tra le truppe di Pirro.
- Inoltre, Eutropio riferisce che 1.800 soldati romani furono fatti prigionieri.
- Paolo Orosio fornisce questo preciso bilancio delle perdite romane: 14.880 morti e 1.310 prigionieri per la fanteria, 246 cavalieri uccisi e 502 prigionieri, oltre a 22 insegne perse.
- I dati di Paolo Orosio sono in linea con quelli di Dionigi e di Eutropio, che li riportano in più scritti.
Se si fa riferimento a quanto riferito da Dionigi, le perdite ammontavano alla metà dell’esercito greco, mentre se si considerano i numeri di Geronimo le vittime ne rappresentavano comunque un quinto. In entrambi i casi queste perdite erano difficilmente colmabili dal momento che l’Epiro non era in grado di fornire rimpiazzi in tempi brevi, a differenza dell’esercito romano che arruolava nuove legioni con estrema velocità, soprattutto se si considera la qualità degli uomini che perirono. Pirro perse molti fedeli amici e ottimi capitani e anche lui stesso rischiò più volte la morte; così, anziché festeggiare per la vittoria ottenuta, venne preso dallo sconforto. Di conseguenza, tentò di reclutare i prigionieri romani nel proprio esercito, come aveva già fatto in Oriente con i contingenti mercenari, ma essi rifiutarono e preferirono restare fedeli a Roma.
Secondo lo storico Giovanni Brizzi, la battaglia fu decisa dal fatto che i Romani si confrontarono per la prima volta con la “manovra avvolgente” di origine ellenistica e le legioni, che avevano tenuto testa alla falange fino a quel momento, cedettero di colpo quando gli elefanti e la cavalleria tessala piombarono sul loro fianco, costringendo l’esercito romano a ripiegare in disordine.

LE CONSEGUENZE DELLA BATTAGLIA DI HERACLEA
La vittoria conseguita da Pirro sui Romani suscitò ovviamente un’impressione enorme e produsse subito effetti notevoli: sembrò, infatti, concretizzarsi quell’intesa tra Greci e Italici in funzione antiromana, che parte dell’aristocrazia tarentina si augurava da tempo. Mentre i Sanniti, i Bruzii ed i Lucani abbandonarono ogni remora ed entrarono apertamente nell’esercito epirota-tarentino, le città magno-greche di Locri e di Crotone si liberarono dei presidi romani ivi attestati.
A Reggio Calabria, ultima posizione della costa ionica ancora controllata da Roma, il pretore campano Decio Vibullio (o Giubellio), che comandava la guarnigione cittadina, massacrò una parte degli abitanti, cacciò i restanti e si proclamò reggente della città, ribellandosi all’autorità di Roma. Più tardi fu punito da Gaio Fabricio Luscino.
L’ELOQUENZA DI APPIO CLAUDIO CIECO
Pirro aveva appreso che il console Levino sostava a Venosa, impegnato ad assicurare le cure ai feriti e a riorganizzare l’esercito in attesa di rinforzi mentre il console Coruncanio era impegnato in Etruria. Pertanto, avanzò verso Roma con l’intento di spingere i suoi alleati all’aperta ribellione, chiedendo per Sanniti, Lucani, Dauni e Bruzi la restituzione dei territori perduti in guerra oltre a provare a sorreggere gli Etruschi contro l’esercito di Coruncanio.

Considerata la forza dei Romani, Pirro tentò di mandare a Roma uno dei suoi più validi mediatori, Cinea, per dettare le condizioni di pace e restituire i prigionieri catturati al termine della battaglia.
L’abile oratore era quasi riuscito a convincere i romani ad abbandonare la guerra e ad accettare le condizioni di Pirro quando trovò l’opposizione di un Senatore, Appio Claudio, detto il Cieco.
Non si trattava di un patrizio come tanti, ma un uomo di grande autorità, costruttore del primo acquedotto romano, della Via Appia, nonché di numerosi palazzi, teatri e basiliche. Fu anche due volte censore, e poeta noto, tra l’altro per questo detto celebre: “Faber est suae quisque fortunae” (Ognuno è artefice del proprio destino). Appio Claudio apostrofò duramente i senatori che volevano venire a patti col nemico, li disse vili e dimentichi delle glorie passate di Roma e dei suoi grandi uomini. Lo immaginiamo, dal fondo del Senato, canuto, innalzare lo sguardo spento nel vuoto, mentre le sue parole aspre riportano i senatori ai valori dell’antica Repubblica.
Il discorso di Appio Claudio merita di essere riportato per la sua eloquenza: “Dov’è finito quel discorso, infatti, che ripetevate sempre a tutti, secondo cui, se il grande Alessandro fosse venuto in Italia e si fosse scontrato con noi, che eravamo giovani, e con i nostri padri, allora nel fiore dell’età, adesso non sarebbe celebrato come invincibile, ma la sua fuga o la sua morte nella nostra terra avrebbero reso Roma più famosa?”.
L’intervento di Appio Claudio Cieco si concluse con queste parole:
“Se Pirro vuole la pace e l’amicizia dei Romani, prima si ritiri dall’Italia e poi mandi i suoi ambasciatori. Fintanto che rimarrà non sarà considerato né amico né alleato, né giudice o arbitro dei Romani”
(Appiano di Alessandria, Storia di Roma, le guerre sannitiche, X, 2.)

Uscito finalmente dall’indecisione, il Senato respinse le proposte del Re epirota e, alla presenza dello stesso Cinea, decise l’arruolamento di due nuove legioni, affidate ancora a Levino, al fine di rimpiazzare i caduti in battaglia. L’ambasciatore, sconvolto nel vedere quanti fossero i volontari per questa nuova chiamata alle armi, tornato da Pirro esclamò: “Stiamo combattendo una guerra contro un’Idra” (Appiano di Alessandria, Storia di Roma, le guerre sannitiche, X, 3.).
L’AVANZATA VERSO ROMA
Frattanto gli Etruschi avevano accettato una pace che lasciò libere le forze di Coruncanio, che ora stavano muovendo dal nord dell’Etruria per riunirsi a Levino.

Quando Pirro si accorse che non c’era alcuna possibilità di un accordo con il Senato romano, decise di passare al contrattacco, avanzando con la sua armata verso nord. Durante l’avanzata deviò su Napoli con l’intento di prenderla o di indurla a ribellarsi a Roma. Il tentativo fallì e comportò una perdita di tempo che giocò a vantaggio dei Romani: quando giunse a Capua la trovò già presidiata da Levino. Proseguì allora verso Roma devastando la zona del Liri e di Fregellae, giungendo infine ad Anagni e forse anche a Preneste, portandosi a solo 300 stadi da Roma (circa 52 Km!).
Senonché questa impresa arditissima, contrariamente alle aspettative dell’Epirota, non suscitò ribellioni a Roma né raggiunse il fine ultimo di indurla a trattare, principalmente perché nel mondo campano-laziale era già maturata, a differenza che nella Magna Grecia, una solida integrazione con la stessa Roma. Consapevole di non disporre di forze sufficienti per affrontare le armate riunite di Coruncanio, Levino e Barbula, decise di ritirarsi e far ritorno in Campania, dove ripartì le forze nelle varie città in attesa dell’inverno; in questo modo sottolineò anche i limiti territoriali che egli stesso aveva fissato per la sua azione, confinandola alla sola Italia meridionale.
LA BATTAGLIA DI ASCOLI DI PUGLIA (279 a.C.)

Pirro, desideroso di far insorgere tutta l’Italia meridionale con un esercito variegato comprendente anche mercenari al soldo dei tarantini, reparti di re Tolomeo Cerauno di Macedonia (una falange macedone, un reparto di cavalleria tessala), fanti e cavalieri mercenari provenienti dall’Etolia, dalla Acarnania e dall’Atamania, disertori oschi e sanniti, per un totale di 40.000 uomini, si diresse a Nord, nel territorio della Daunia, regione pressappoco corrispondente all’attuale provincia di Foggia.
Da quel luogo, attraversato l’Appennino, contava di piombare sul basso Lazio e di prendere Roma di sorpresa. Ma le spie romane, avendo avuto la certezza dell’intento di Pirro, fecero sì che i Romani attirassero l’esercito avversario tra il torrente Carapelle e il monte Carpinelli, in una piana non vasta abbastanza per la cavalleria avversaria e per lo schieramento dei 19 elefanti che Pirro aveva con sé. La stessa falange macedone richiedeva ampi spazi per poter esser pienamente operativa. Viceversa, le compatte legioni romane erano interdipendenti e non richiedevano ampi spazi di manovra.
Gli schieramenti
I Romani schieravano 8 legioni per un totale di 40.000 uomini: 4 romane e 4 alleate (sanniti, latini, etruschi). Lo storico greco Polibio, che scrive circa un secolo e mezzo dopo la data degli avvenimenti, lascia supporre che i Dauni, alleati di Roma, abbiano scelto essi stessi il luogo della battaglia e che Pirro, vista l’inferiorità nella fanteria e la superiorità nella cavalleria, che era neutralizzata dalla topografia del luogo, alternò picchieri a coorti di alleati e mercenari.
È possibile conteggiare gli effettivi di Pirro ad Ascoli partendo dal meticoloso elenco di Dionigi di Alicarnasso ed integrandolo con le poche altre fonti a nostra disposizione. Dionigi enumera tutti i reparti di Pirro, non ne fornisce però la singola consistenza, ma solamente la somma, ammontante a 70.000 fanti e 8.000 cavalieri, cifra che appare esagerata. Ipotizzando che Pirro richiedesse a sudditi, alleati e mercenari contingenti di entità standard, il suo schieramento doveva essere il seguente:

- Ala destra: 400 cavalieri Sanniti; 300 cavalieri Tessali; 200 cavalieri Bruzi; 200 cavalieri mercenari italici.
- Centro: I divisione – 2.500 falangiti Macedoni; 3.000 falangiti Ambracioti; 3.000 peltasti mercenari italici.
- II divisione – 3.000 opliti Tarantini; 3.000 guerrieri Bruzi; 3.000 guerrieri Lucani.
- III divisione – 3.000 falangiti Molossi; 3.000 falangiti Caoni; 3.000 falangiti Tesproti.
- IV divisione – 3.000 peltasti mercenari greci; 6.000 fanti Sanniti.
- Ala sinistra: 300 cavalieri Ambracioti; 200 cavalieri Lucani; 200 cavalieri Tarantini; 400 cavalieri mercenari greci.
- Riserva: 500 cavalieri dello Squadrone Reale; 600 cavalieri dell’agema d’Italia; 900 cavalieri Epiroti; 2.000 arcieri e 500 frombolieri asiatici; 20 elefanti.
Lo scontro
La battaglia durò due giorni, interrotta solo dal calar del sole. Il primo giorno, i Romani contennero la coalizione avversaria: la Prima Legione romana indietreggiò sotto l’urto dell’ala sinistra epirota dotata di elefanti. Il centro dello schieramento epirota, in cui si trovavano anche i mercenari tarantini, gli Oschi ed i Sanniti, fu spazzato via dalla Terza e dalla Quarta Legione. Nel frattempo, i Dauni, con un drappello di uomini, andarono a saccheggiare il campo di Pirro assieme alla Prima Legione romana, ma vennero ricacciati su un colle dall’azione della cavalleria epirota. Essi, rifugiati nei boschi, non riuscirono ad esser stanati dagli Epiroti. La cavalleria greca venne, a sua volta, attaccata e dispersa da quella romana.

L’indomani, Pirro, all’alba, fece occupare il colle ed il bosco che il giorno prima aveva dato rifugio ai romani. Secondo Frontino, il re schierò a destra i Sanniti (con gli ipaspisti); al centro la falange epirota appoggiata dai Tarantini; a sinistra gli ausiliari Lucani, Bruzi e Messapi. I Romani dovettero scontrarsi in campo aperto con gli Epiroti, ma la falange, su un terreno accidentato, non riusciva ad assicurare la compattezza indispensabile a sopraffare le legioni romane. A questo punto, Pirro decise di far intervenire gli elefanti per sfondare le linee romane, cosa che puntualmente avvenne. I Romani non ebbero successo a contrastare i pachidermi con speciali carri di loro invenzione. In compenso, ebbero miglior fortuna crivellandoli di dardi e di giavellotti. Pirro stesso fu colpito da un giavellotto al termine della battaglia.
I Romani si ritirarono ordinatamente nel loro campo, mentre gli Epiroti dovettero faticare non poco a calmare gli elefanti impazziti dal dolore per le frecce e le lance ricevute.
La Devotio

In questa battaglia morì il console Publio Decio Mure immolandosi con una Devotio. Si tratta di una pratica religiosa dell’antica Roma secondo cui una persona si immolava agli Dei Mani per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza per la propria comunità. La più alta forma di Devotio era quella militare, nella quale il comandante dell’esercito romano, in un momento di grave difficoltà, invocava il favore degli Dei per la propria parte, offrendo in cambio la propria vita. Di fatto si tratta di una forma di suicidio ritualizzata tramite un complesso e rigido rito religioso. Non meno importante era il suo significato politico, dato dall’estremo sacrificio di un singolo cittadino romano, un nobile, fatto per il bene della propria collettività.
LE CONSEGUENZE DELLA BATTAGLIA DI ASCOLI: LA “VITTORIA DI PIRRO”
I Romani furono nuovamente sconfitti (persero 6.000 uomini) infliggendo tuttavia, in proporzione, perdite talmente alte alla coalizione greco-italico-epirota (3.500 soldati) che Pirro fu costretto a ripiegare per evitare ulteriori scontri coi Romani che avrebbero assottigliato ulteriormente le sue forze. Si narra abbia dichiarato, alla fine della battaglia, “Ἂν ἔτι μίαν μάχην νικήσωμεν, ἀπολώλαμεν” (“un’altra vittoria così sui Romani e sarò perduto“). Da questo episodio l’uso del termine “vittoria di Pirro” (o “vittoria pirrica”), coniato dai Romani, divenne proverbiale.
Tatticamente, la vittoria fu degli Epiroti, ma strategicamente fu del tutto inutile: né i Sanniti si ribellarono ai Romani, né lo fecero i Latini, gli Etruschi e gli altri popoli italici. Anche i Greci di Napoli e di Cuma rimasero alleati ai Romani. Roma stessa non poté esser assalita da Pirro che vide sfumare il suo proposito intimidatorio.
Vanno tenuti in conto diversi fattori per valutare la portata dell’avanzata di Pirro: innanzitutto, egli è abbastanza presto percepito come un tiranno dai Tarantini, che ritirano il loro appoggio; Pirro, d’altra parte, ha difficoltà a muovere il proprio esercito sugli Appennini; infine, la resistenza romana è determinata dal proprio valore nazionale, quello di una realtà statuale intimamente radicata al territorio (cosa che non valeva per gli eserciti ellenistici, composti soprattutto da mercenari).
LA STRANA ALLEANZA TRA ROMA E CARTAGINE

La presenza di Pirro in Italia minacciava tutte le potenze del Mediterraneo: Cartagine addirittura si alleò ai Romani per lottare contro il Re epirota.
“Nel trattato [tra Roma e Cartagine] si confermavano tutti i precedenti accordi, ed in più si aggiungevano i seguenti: nel caso in cui uno dei due stati concludesse un patto di alleanza con Pirro, entrambi erano obbligati ad inserire una clausola che preveda di fornire aiuto l’uno all’altro, qualora venisse attaccato nel proprio territorio; se uno dei due avrà bisogno di aiuto, i Cartaginesi dovranno fornire le navi per il trasporto e per le operazioni militari […]; i Cartaginesi aiuteranno i Romani anche per mare se necessario, ma nessuno potrà obbligare gli equipaggi a sbarcare se non lo vorranno” (Polibio, Storie, III, 25, 1-5.).
Tale trattato dava praticamente a Roma, come vedremo, la strada libera per riaffermare la sua autorità sui popoli italici dei sanniti, Bruzi e Lucani, nonché su diverse città greche quali Crotone e Locri, pur se con la simbolica presenza di guarnigioni lasciate da Pirro.
LA CAMPAGNA IN SICILIA: PIRRO CONTRO I CARTAGINESI (278 – 276 a.C.)
Indebolito e sempre più a corto dei mezzi necessari al suo esercito, Pirro si vide costretto a provvedimenti vessatori che portarono al logoramento dei rapporti con i suoi alleati, al punto che nel 278 a.C. decise di interrompere provvisoriamente le ostilità con Roma e vagliare alcune richieste di intervento. La prima proveniva dalla Sicilia, dove le città greche stavano cedendo terreno a Cartagine; la seconda muoveva invece dalla Macedonia, dove la morte del re Tolomeo Cerauno, subentrato nel 281 a.C. a Lisimaco e sconfitto due anni più tardi dai celti galati, aveva riaperto i giochi per la corona.

Pirro giunse a conclusione che le opportunità maggiori venivano dall’avventura in Sicilia e decise, pertanto, di abbandonare l’Italia meridionale e andare in aiuto dell’isola, non avendo ottenuto però nessun trattato preciso dai Romani. Al comando di un esercito di 37.000 uomini mosse da Agrigento verso Erice e la espugnò: caduta la città filocartaginese più fortificata, altre come Segesta e Selinunte si consegnarono all’epirota. Confinati i Cartaginesi nell’estremo ovest dell’isola, Pirro fu così nominato re di Sicilia, e i suoi piani prevedevano la spartizione dei territori fin lì conquistati tra i due figli, Eleno (a cui sarebbe andata la Sicilia) e Alessandro (a cui sarebbe andata l’Italia).

Fu tuttavia incapace di consolidare il risultato, e anzi – volendo impiegare la Sicilia come trampolino per una campagna libica – finì per perdere l’appoggio di quanti ne avevano chiesto l’intervento. Sembra, infatti, che Pirro avesse concepito un piano analogo a quello che aveva condotto Agatocle a portare la guerra in Africa. Per questa ragione cercò di finanziare la costruzione di una flotta, obbligando le poleis siceliote la spesa, e imponendo una vera e propria monarchia assoluta di stampo ellenistico su tutte le città greche, che fece presidiare con forti guarnigioni ma con tali misure si alienò tutti i consensi. I Cartaginesi tentarono di trarne giovamento inviando una seconda armata in Sicilia e furono prontamente sconfitti.
IL RITORNO IN ITALIA
Nel 276 a.C. l’ostilità nei suoi confronti indusse Pirro a interrompere i propri progetti per tornare in Italia, dove i Tarantini, così come i Sanniti, i Lucani e i Bruzi, contavano su di lui per resistere a Roma che, rifornita abbondantemente da Cartagine, rioccupava senza colpo ferire tutto il territorio precedentemente perduto in Puglia ed in Lucania.
Sedata definitivamente la ribellione degli Oschi e dei Sanniti (la componente stanziata al confine tra le attuali Campania e Puglia), arrivò nell’inverno del 276 a.C. a porre nuovamente sotto assedio Taranto, per terra e questa volta anche per mare, complice la flotta cartaginese.
Durante il trasferimento delle truppe, i Cartaginesi ne approfittarono per attaccarlo sul mare, così che l’esercito di Pirro, nella Battaglia dello Stretto di Messina subì gravissime perdite. La marina cartaginese affondò 70 navi greche e ne danneggiò 28. Le navi superstiti di Pirro, pari a 12 navi da guerra più le navi da trasporto, attraccarono a Locri, dove aveva lasciato il figlio Alessandro all’avvio della sua campagna di Sicilia.
Il re epirota tentò invano di raddrizzare le sorti della guerra, ma inutilmente; anche se riuscì a riprendere Locri, non fu in grado, come era successo nei precedenti scontri, di battere le due armate consolari che gli si erano poste di fronte.
LA BATTAGLIA DI MALEVENTUM

Pirro decise di arrivare all’ennesimo scontro con i Romani. Arruolò in tutta fretta un esercito tra i tarantini, rinforzando i suoi 23.000 uomini, di cui circa 3.000 cavalieri, e i suoi elefanti rimasti e si spostò per trovare il nemico. La sua intenzione era quella di marciare direttamente su Roma per indurla a togliere l’assedio da Taranto.
Ma i Romani, che avevano intuito le sue intenzioni, lo aspettavano al varco per vendicare le prime due sconfitte, stavolta con delle tattiche aggiornate per fronteggiare i suoi terribili elefanti.
I consoli per l’anno 275 erano Lucio Cornelio Lentulo e Manio Curio Dentato (console per la terza volte, vincitore ultimo della terza guerra sannitica, fautore della fondazione della colonia di Senigallia dopo aver battuto i Galli Senoni) che ricevono il comando delle truppe impegnate rispettivamente in Lucania e nel Sannio.
Alla notizia dell’avanzata di Pirro verso il Sannio i due consoli decidono di presidiare le vie per Roma, Lentulo quella centrale, Dentato quella più orientale, presso la città di Maleventum.
A questo punto il re dell’Epiro divide le sue forze inviando un grosso distaccamento a intercettare Lentulo e impedirgli di raggiungere il collega Dentato che, di conseguenza si trova ad affrontare il resto dell’esercito epirota.
Dentato si trovava con i suoi uomini su un’altura, al riparo, mentre Pirro si era posizionato in pianura. Per raggiungere questa zona Pirro aveva tuttavia superato una serie di ostacoli e delle vie piuttosto strette.
Le forze in campo
L’esercito romano comandato dal console Manio Curio Dentato contava su una forza di circa 17.000 uomini e 1.200 cavalieri.
Pirro disponeva invece di quasi 20.000 soldati, oltre ad alcuni elefanti da guerra. Nello schieramento del suo esercito erano presenti reparti di cavalleria macedone, greca e sannitica, mentre la fanteria, sempre organizzata secondo il modello della falange macedone, comprendeva anche opliti greci, oltre a frombolieri, lanciatori di giavellotto e arcieri. Probabilmente fu in questa occasione che Pirro adottò lo schieramento alternato di speirai greche e coorti italiche citato da Polibio, per evitare lo sfondamento delle proprie linee avvenuto ad Ascoli di Puglia proprio là dove erano concentrati i suoi alleati italici.

Le mosse iniziali
Secondo Plutarco, Dentato prese tempo prima di ingaggiare battaglia al fine di potersi congiungere presto con Lentulo e ciò anche perché gli auspici (sempre richiesti prima dell’inizio di un combattimento) erano infausti e quindi non favorevoli. Ma è più probabile, considerata la sua lunga esperienza militare, che il console, più che decidere in base ai riti propiziatori, avesse deciso in base alla situazione reale che si profilava in quel momento e la posizione del suo campo – al riparo su un’altura – gli dava ragione.
In ogni caso l’atteggiamento dei Romani spinge all’azione Pirro che non ha voglia di aspettare: contrariamente al suo grande esempio, Alessandro Magno, che odiava attaccare di notte, decide di sfruttare il buio per portarsi in prossimità del castrum romano, con una manovra di aggiramento e attacco. Consapevole delle difficoltà di una marcia notturna decide di portarsi solo parte del suo esercito, i migliori e parte degli elefanti.
Il resto delle truppe avrebbe avanzato in pianura affinché fosse avvistato dai Romani all’alba (come riferisce Plutarco nel suo Pirro, XXV). E il suo collega Dionigi di Alicarnasso scrive che “era inevitabile che gli opliti, gravati da elmi, corazze e scudi e facendo la marcia per colline e sentieri non battuti da uomini, ma da capre, attraverso boscaglie e dirupi, non fossero in grado di mantenere l’ordine e fossero spossati per la sete e la fatica prima ancora che spuntassero i nemici” (Antichità romane, XX).
L’avanguardia epirota finisce per camminare talmente a lungo da fare spegnere le torce: gli uomini si disperdono e il nuovo giorno li vede ancora sulle colline prima di riuscire ricompattarsi e lontani dal resto dei compagni giù nella pianura, esposti quindi al contrattacco romano. Intercettati, infatti, dagli uomini di Dentato, iniziarono un piccolo ma sanguinoso combattimento.
Lo scontro, breve ma intenso, vide gli uomini di Dentato avere la meglio: i soldati romani riuscirono addirittura a catturare un paio di elefanti mentre il resto dell’avanguardia pirrica batte in ritirata per riunirsi al grosso dell’esercito.
Questa piccola scaramuccia iniziale diede ai soldati romani un nuovo coraggio: Dentato si decise a scendere dalla sua posizione sopraelevata, si fece più audace e marciò direttamente contro il suo avversario. Sceso dall’altura, gli eserciti di Dentato e di Pirro si fronteggiarono.
La battaglia
Le sorti della battaglia saranno ancora da decidere. Le fonti sono alquanto scarse e non permettono una ricostruzione dei fatti che portano alla vittoria di Roma, comunque sono tali da concludere che anche questo terzo scontro non vede affrontarsi la sola legione contro la sola falange.

I soldati romani utilizzarono un numeroso lancio di giavellotti a brevissima distanza contro quel grande e fitto numero di lance – tipico della falange macedone – che appariva terrorizzante e insuperabile. Questa carica di artiglieria poco prima dell’impatto creò dei buchi all’interno della temutissima linea di attacco di Pirro, spazi fondamentali che i legionari occuparono velocemente andando a colpire, con il corto gladio, il nemico armato di lance, assolutamente inutili nel corpo a corpo. Così aggredita, la falange venne definitivamente annientata dagli attacchi laterali della seconda e terza linea delle legioni.
I legionari di Dentato erano già riusciti a sfondare le prime due linee dei nemici, quando la situazione ebbe un capovolgimento. Pirro giocò infatti la carta degli elefanti, il suo principale strumento offensivo, che vennero lanciati all’attacco. I soldati romani furono costretti a scappare e ad allontanarsi dalla carica, ritornando sui loro passi, verso la collinetta e arroccandosi addirittura all’interno del loro accampamento. Bravura degli elefanti o ripiegamento tattico preventivato da Dentato, sta di fatto che gli epiroti si avvicinano al campo romano, affrontando sia i legionari fuori che quelli dentro il castrum, finendo per subire l’intenso lancio dei pila dagli spalti.

I Romani, infatti, avevano avuto il tempo di studiare il comportamento degli elefanti e avevano capito che il modo migliore per batterli era sommergerli di frecce e di giavellotti puntati direttamente agli occhi. Direttamente dalle mura dall’accampamento partì quindi un grande carica di artiglieria.
Gli elefanti vennero bersagliati dai dardi e le cronache ci parlano di un episodio molto particolare. Un cucciolo di elefante venne colpito in fronte e iniziò a barrire e a cercare la madre emettendo dei gemiti tremendi. Tutti gli altri pachidermi furono terrorizzati dal disperato urlo del cucciolo e in poco tempo iniziarono a perdere il controllo e a scappare. Tra le vittime designate i conducenti degli elefanti e gli uomini nelle torrette e secondo quanto scrive Orosio furono usati “ordigni incendiari avvolti di stoppa, spalmati di pece e muniti di resistenti uncini…, li incendiavano e li scagliavano sul dorso delle bestie e all’interno delle torricelle” (Orosio, Le storie contro i pagani, IV).
I pachidermi, feriti, ustionati o senza guida, finiscono per perdere il controllo e si disperdono tra le fila epirote, seminando il panico tra i soldati.
L’esercito di Pirro venne travolto dai suoi stessi elefanti, che si dimostrarono un elemento controproducente. Senza un particolare intervento dei Romani, nonostante la battaglia continuasse per tutto il giorno, la formazione di Pirro venne completamente disarticolata.
Pirro è costretto a sganciarsi dallo scontro per evitare di subire il movimento a tenaglia dei Romani di Lentulo che è ormai prossimo al campo di battaglia.

La vittoria di Dentato non fu schiacciante, ma certamente dimostrò di aver superato il grande limite che i Romani avevano avuto fino a quel momento nei confronti degli elefanti. La tradizione romana parla di 23.000 nemici uccisi e di 1.300 prigionieri, ma tace sulle proprie perdite. Furono abbattuti anche 2 elefanti da guerra, mentre altri 8 furono catturati. 4 furono portati vivi a Roma, dove suscitarono grande curiosità tra il popolo che non ne aveva mai visti.
Da Maleventum a Beneventum
Dopo 6 anni dallo scontro, i Romani fondarono una colonia nei pressi del campo di battaglia e ribattezzarono la città da “Maleventum” in “Beneventum”, proprio in memoria della buona sorte che li aveva accompagnati nel corso dello scontro con Pirro.
PIRRO E LA SUA SCONFITTA STRATEGICA
Tatticamente la battaglia di Benevento può essere considerata uno stallo, ma strategicamente è stata una vittoria dei Romani: Pirro aveva infatti lasciato sul campo tutta la fanteria leggera, quasi tutta la cavalleria e oltre metà degli elefanti; in pratica la sua intera forza di manovra. Una spiegazione dell’esito negativo dello scontro per Pirro, che in precedenza aveva battuto le legioni romane nella battaglia di Heraclea e ad Ascoli di Puglia, può ricercarsi nel fatto che il re dell’Epiro a Maleventum non aveva più a piena disposizione, come all’inizio della campagna in Italia, le sue forze migliori, in particolare gli esperti falangiti, che avevano subito perdite pesanti non solo nelle campagne del 280 a.C. e 279 a.C. nella penisola, ma anche durante l’attraversamento dello stretto di Messina nel ritorno dalla campagna in Sicilia.
IL RITORNO IN PATRIA
Pirro, per non cadere prigioniero dei Romani, si ritirò a Taranto e da qui fece ritorno precipitosamente nel suo regno con quanto rimaneva del suo esercito, lasciando una timida guarnigione al comando del figlio, un gesto per salvare le apparenze con i tarantini di un successivo ritorno, ma il sovrano non avrà nessuna intenzione di riattraversare il Mediterraneo.
LE CONSEGUENZE: ROMA SOTTOMETTE LA MAGNA GRECIA

Taranto rimase sotto assedio altri tre anni, capitolando nel 272 a.C. al console Papirio Cursore il Giovane a cui è la stessa guarnigione lasciata da Pirro a consegnare la città. Le città della Magna Grecia, ormai senza una possente esercito a loro difesa, capitoleranno l’una dopo l’altra (Reggio fu presa nel 271 a.C.): i Romani riusciranno a prendere il controllo di queste strategiche città sul Mediterraneo e ad assimilare la Magna Grecia all’interno della loro orbita. Roma aveva così completato la sottomissione della Magna Grecia e la conquista di tutta l’Italia meridionale.
Un nuovo tassello era stato aggiunto nella costruzione del mosaico repubblicano romano. Pirro nonostante le sue mezze vittorie, era stato respinto. Si trattava di un esame di maturità notevole per la nascente potenza romana: la vittoria su Pirro fece scalpore e il nome di Roma si diffuse per la prima volta nel Mediterraneo, divenendo la nuova potenza da battere.
L’integrazione della Magna Grecia nel dominio della Repubblica Romana fu l’inizio di varie evoluzioni sociali per la città, che accoglieva così molti più Greci la cui cultura avrebbe in seguito influenzato la stessa società romana. Ma mise anche Roma a diretto contatto con la Sicilia dove l’avrebbe aspettata un’altra grandissima potenza antagonista con cui andrà inevitabilmente in conflitto: Cartagine. Ma questa è un’altra storia.

UNA FINE INGLORIOSA
E Pirro? In patria, non pago del grave prezzo in uomini, denaro e mezzi della sua avventura a Occidente, riprese la guerra per il predominio sulla Grecia, opponendosi ad Antigono Gonata, figlio di Demetrio I Poliorcete, per il possesso della Macedonia e contendendo a Sparta la supremazia sul Peloponneso.
Nel 274 a.C. i due sovrani – Pirro ed Antigono – si affrontarono nella battaglia dell’Aoos, nel 274 a.C. Pirro riuscì a sconfiggere il potente esercito macedone, costringendo Antigono a ritirarsi e riprendendo il trono macedone.
Nel 272 a.C., Cleonimo, nobile spartano che si era inimicato le autorità della sua città, chiese a Pirro di attaccarla, affinché lui stesso potesse comandarla nel nome dell’Epiro. Pirro si dichiarò d’accordo nella volontà di ottenere per sé il controllo del Peloponneso, ma il suo esercito trovò un’inaspettata resistenza, tale da impedirgli ogni assalto su Sparta. Il re, allora, decise di passare l’inverno nel Peloponneso per poi riprendere la campagna di conquista in primavera, dato che gli era stata offerta la possibilità di intervenire in una disputa interna alla città di Argo dove la sua intromissione nei dissidi interni della città avrebbe potuto indebolire ulteriormente Antigono.
Il blitz notturno contro la città si risolse in un disastro: intrappolato nella convulsa guerra urbana che ne seguì, una donna anziana, vedendolo dal tetto della sua casa, gli lanciò una tegola che, secondo quanto si dice, lo colpì e lo distrasse, permettendo a un soldato argivo di ucciderlo. La testa di Pirro fu portata da Alcioneo al padre Antigono, che, però, lo rimproverò per la sua barbarie e lo allontanò con rabbia dalla sua presenza. I suoi resti furono portati nel tempio di Demetra.

Finisce così, in modo indegno, l’epoca di un condottiero, considerato in Oriente quasi alla stessa stregua del grande Alessandro.
CONCLUSIONE: LA FIGURA DI PIRRO NEL TEMPO
Il punto debole di Pirro, se vogliamo, fu la grande ambizione: la campagna d’Italia non era indispensabile ma, come Alessandro Magno, si prefiggeva la conquista del Mediterraneo e sottostimò l’organizzazione dei Romani, che considerava dei barbari. Tuttavia, egli dimostrò di possedere lo spirito del vero condottiero, disposto a qualunque sacrificio pur di ottenere vittorie. Purtroppo per lui l’Italia non era un terreno di conquista qualunque. Ne avrebbe tratto le medesime amare conclusioni Annibale settant’anni più tardi: nonostante le strabilianti vittorie sul campo, la guerra fu perduta. Lo spirito indomabile dei Romani e la fedeltà dei popoli a loro sottomessi furono elementi di maggior peso che non l’abilità strategica in battaglia.
La sua reputazione quale eccezionale condottiero sopravvisse alla sua morte, anzi: se possibile crebbe. Anche se non fu sempre un re saggio e men che mai moderato, la sua leadership fu instancabile e vivace. È ricordato come uno dei più brillanti capi militari del suo tempo: Plutarco racconta che qualche anno più tardi il cartaginese Annibale esternò a Scipione l’Africano tutta la sua ammirazione per il valore militare di Pirro, ritenuto secondo solo a quello di Alessandro Magno.
Pirro passò anche alla storia come una persona molto generosa, ma fu proprio questa la sua più grande debolezza politica: infatti lasciò le casse dello stato in crisi per i doni, le spese militari e gli aiuti ai cittadini.
Si dimostrò tuttavia molto attivo e capace: riorganizzò lo stato rafforzando i propri poteri, organizzò un governo centrale e abbellì le città.
Purtroppo, non lasciando un successore degno di nota, l’Epiro decadde e divenne vassallo prima della Macedonia e poi degli Etoli, e infine fu occupato da Roma.
Scrisse un memoriale e diversi libri sull’arte della guerra, testi che andarono perduti nonostante le influenze che lasciarono in seguito su Annibale e gli elogi che ricevettero da Cicerone.
Nel prossimo episodio, parleremo proprio del personaggio a cui abbiamo accennato prima e che sarà l’incubo di Roma per anni: Annibale. Vi aspettiamo.