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Il Lazio è la regione col maggior numero di donne detenute.

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venerdì, Maggio 3, 2024

Il Lazio è la regione col maggior numero di donne detenute, molte ancora in attesa di giudizio.

Con il 6,4% è il Lazio la regione con il più alto numero di donne detenute, contro una media nazionale del 4,2%. Donne suddivise tra le quattro strutture penitenziarie femminili della regione: le case circondariali di Rebibbia, di Civitavecchia, di Latina e la Casa di reclusione di Paliano. Strutture che ospitano nel complesso 402 detenute, pari al 17,6% della popolazione carceraria femminile italiana.

Questi alcuni dati realizzati ed elaborati dalla Uil di Roma e del Lazio, in collaborazione con l’istituto di ricerca Eures, relativamente alla situazione carceraria delle detenute della regione, in occasione del convegno “Vite in sospeso” organizzato dal sindacato regionale all’interno del carcere di Rebibbia.

Sono 203 le donne straniere (199 le italiane) presenti nelle strutture carcerarie, ovvero la metà delle detenute del Lazio. Un dato fortemente in crescita dal 2012, quando rappresentavano il 44% del totale, a oggi in cui la percentuale di presenze è salita al 50,5%. Di queste, nel Lazio, a differenza del resto d’Italia, la maggior parte proviene da Paesi della Comunità europea (37,9%), segue poi un 27% proveniente dall’ex Jugoslavia e dall’Albania e un 30% equamente suddiviso tra Africa e SudAmerica. Nel resto d’Italia, invece, la presenza di detenute africane è nettamente superiore (25,2%). Diversa anche l’età anagrafica: nella nostra regione vi è una componente più giovane rispetto al resto del Paese, anche se sono le fasce di età “centrali”, ovvero 30-39 e 40-49, a raccogliere le presenze più numerose. Negli ultimi anni però è solo la componente più anziana a registrare un risultato in crescita, con un incremento di circa il 18% delle over 50.

“Dato quest’ultimo – commenta il segretario generale della Uil di Roma e del Lazio, Alberto Civica – che potrebbe essere legato purtroppo anche alla situazione di crisi e all’aumento del disagio sociale. Non è un caso che il furto sia il reato più diffuso tra le detenute di Rebibbia ad esempio”.

Se è pressoché uguale il numero delle detenute donne nubili e coniugate presenti all’interno delle strutture carcerarie (28%), rimangono invece molto più contenute le presenze di divorziate (4,9%) e vedove (5,1%). Particolarmente elevato è invece il numero delle donne con figli, che nel Lazio risultano essere 291, pari al 72,4% delle detenute censite, con una media di 2,9 figli a testa, un valore superiore al doppio di quello della fecondità media della popolazione. Undici di questi bambini sono attualmente ospitati con le rispettive mamme all’interno della casa circondariale di Rebibbia, l’unica sul territorio regionale a essere dotata di un asilo nido.

“Situazione molto delicata e complessa da gestire questa delle detenute con figli al seguito – continua Civica – sia per la mancanza sul territorio di strutture carcerarie idonee (tranne Rebibbia) sia in rapporto al dopo, per i bambini e per le loro madri. Perché se è vero che la presenza di figli rappresenta spesso una forte motivazione per il reinserimento sociale, è anche vero che in molti casi i bambini vengono allontanati dalla famiglia originaria. Al compimento del terzo anno di età, i piccoli lasciano giustamente il carcere, ma troppe volte finiscono in strutture protette. Cosa che dovrebbe rappresentare la soluzione ultima e solo in mancanza di nonni, zii, o altri parenti in grado di accudirli”. Il tema dei figli è uno dei più sentiti tra la popolazione carceraria. Le stesse operatrici raccontano che la richiesta più frequente da parte delle detenute sia quella dei colloqui con i figli, spesso ospitati presso strutture di accoglienza”.

Tra le donne detenute del Lazio, un numero molto alto, che nell’ultimo quinquennio varia tra il 16 e il 19,4%, è quello donne appellanti o ricorrenti, quindi in attesa ancora di una pena definitiva.

“Motivo questo per cui l’Italia è stata più volte bacchettata dalla Comunità europea – interviene Civica – in quanto il ricorso alla custodia cautelare dovrebbe essere uno strumento da utilizzare in via eccezionale, dove non sia possibile ricorrere a misure alternative. Invece nel nostro Paese succede addirittura che alcuni detenuti scontino pene più lunghe di quelle poi stabilite dalle sentenze”.

Elemento fondamentale nei vari percorsi di reinserimento diventa il lavoro, strumento di autosufficienza economica ma anche di integrazione e riconoscimento sociale. Il lavoro in carcere diviene così un primo step di un percorso più lungo, ma osservando i dati si nota come questo rappresenti un’esperienza minoritaria nella maggior parte delle realtà carcerarie italiane. E’ la Basilicata a presentare la più alta percentuale di detenute lavoranti (il 91,7% di quelle presenti), agevolata dal numero contenuto delle presenze totali. Il Lazio, invece, con il 41,3% di detenute lavoranti si posiziona al settimo posto con una maggioranza femminile di lavoranti in carcere. Dato virtuoso quest’ultimo che porta le detenute della regione (pari al 6,4% dei detenuti totali) ad avere il doppio delle opportunità lavorative rispetto ai detenuti uomini, a differenza di quanto avviene nel resto del Paese. È la stessa amministrazione penitenziaria ad offrire la quasi totalità delle occasioni di lavoro, a fronte di valori minimi per gli altri “datori di lavoro”, anche se nel 2016 è stato raggiunto il numero più elevato finora di lavoratrici non dipendenti dall’amministrazione penitenziaria: ben l’11,4% contro il 4 – 5% degli anni precedenti.

“Ciò evidenzia un forte impegno dell’Amministrazione in una direzione che produce maggiori speranze di continuità lavorativa una volta riacquistata la libertà – conclude la segretaria regionale Uil, Laura Latini – e si traduce quindi in maggiori possibilità di reinserimento sociale, fondamentale nell’intraprendere un percorso di vita lontano dai reati. Ovvio che il lavoro in esterno, così come i vari laboratori giustamente presenti in molte strutture carcerarie, implicano anche una maggiore sorveglianza, ma spesso le poche risorse investite diventano penalizzanti. Per gli operatori costretti spesso a turni più lunghi per carenza di organico, per i detenuti stessi che a volte vengono privati di opportunità importanti”.

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