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IL TRAPIANTO DI RENE: STORIA.

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Gli albori della trapiantologia renale coincidono con l’inizio del Novecento con esperimenti che coinvolsero gli animali: Emerich Ullmann nel 1902 dopo aver eseguito un autotrapianto su un cane e uno xenotrapianto da cane a capra, tentò di trapiantare il rene di maiale in un umano, purtroppo senza successo; pochi anni dopo, nel 1906 Mathieu Jaboulay tentò con il trapianto del rene di un maiale e poi di una capra su pazienti affetti da insufficienza renale cronica: entrambi furono un insuccesso.

Per un trapianto da uomo a uomo, però, bisognerà aspettare quasi tre decenni: il 3 aprile 1933 il chirurgo sovietico Yuriy Voronoy, prelevato un rene da un donatore cadavere, operò una donna di 26 anni con i reni irrimediabilmente danneggiati da una intossicazione di mercurio, causata da un tentativo di suicidio. Inizialmente il nuovo organo sembrò funzionare, iniziando a produrre urina, segno della ripresa della sua attività, ma due giorni dopo l’intervento le funzioni del rene trapiantato cessarono, portando ad un peggioramento delle condizioni della paziente che, infine, morì.

Il chirurgo sovietico tra il 1933 e il 1949 eseguì altri quattro trapianti, purtroppo senza successo, ma già dopo il primo pioneristico intervento si rese conto che per garantire la sopravvivenza dell’organo e, quindi, del paziente è necessario bloccare la reazione immunitaria che riconosceva come estraneo il nuovo tessuto, attaccandolo, fino a causarne il rigetto. Voronoy, nonostante tutto, ricevettero forte sostegno in Unione Sovietica, venendo ignorato però in occidente, come la maggior parte delle innovazione che provenivano da oltre la cortina di ferro; per questo motivo non riuscì in vita il giusto riconoscimento per aver posto le base di una nuova epoca per la medicina.

L’urologo Richard Lawler nel 1950 si approcciò al trapianto rene, eseguendo l’intervento su un paziente in insufficienza renale, ma non allo stadio terminale: il rene trapiantato produsse urine per poco tempo, fu rimosso alcuni mesi dopo e il paziente continuò la sua vita con i propri reni.

Nel 1951 a Parigi nove condannati a morte tramite ghigliottina vennero scelti come donatori per l’esecuzione di nove trapianti rene: gli interventi furono eseguiti mediante la tecnica consolidata che si utilizza ancora oggi, posizionando il nuovo organo nella pelvi, all’esterno del peritoneo, collegandolo ai vasi iliaci: anche questi casi furono un insuccesso; l’anno successivo, ancora nella capitale francese fu eseguito il primo trapianto di rene da donatore vivente: un sedicenne di nome Marius Renard, ricevette l’organo dalla madre Gilberte: questo sembrò essere promettente, in quanto la funzionalità renale si mantenne regolare più a lungo, ma dopo tre settimane venne rigettato.

Nello stesso periodo a Boston il chirurgo David Hume eseguì nove trapianti tra il 1951 e il 1953; in questo caso i donatori furono pazienti deceduti in corso di altro intervento. I reni vennero trapiantati sulla coscia, lasciando l’uretere al di fuori del corpo, ad eccezione di un solo caso in cui l’organo fu trapiantato nella sua posizione originale. Venne inoltre tentato un trattamento con ormone adrenocorticotropo, cortisone e testosterone, ma solo quattro reni mostrarono una certa funzione, ma solo uno durò per più di cinque mesi.

Questi risultati incoraggianti degli anni Cinquanta, mostrarono che le problematiche relative alla neonata trapiantologia renale non riguardavano tanto l’aspetto tecnico-chirurgico, quanto l’assenza di metodi per fermare il rigetto, che allora sembrava inevitabile, tanto che gli scienziati dell’epoca sostenevano come remota la possibilità di avere successo. Nonostante tutto, l’assenza di trattamento per i casi di insufficienza renale era una spinta per continuare con la sperimentazione.

Il primo successo fu un regalo di Natale: l’intervento fu infatti eseguito il 23 dicembre 1954 da Joseph Murray che operò su Richard Herrick. Cosa portò a questo successo? Il donatore era il fratello gemello del paziente, Ronald: trattandosi di un soggetto identico al ricevente dal punto di vista geneticolo il problema del rigetto era stato aggirato.

Attraverso degli espirimenti sui ratti, due ricercatori, Joan Main e Richmond Prehn, nel 1955 dimostrarono di poter evitare il rigetto indebolendo il sistema immunitario del ricevente con l’irradiazione e inoculando cellule del midollo. A partire dal  1958 Murray usò questa tecnica su dodici pazienti, ma undici morirono entro un mese; l’unico sopravvissuto mantenne una buona funzionalità renale per venti anni; a lui non venne inoculato il midollo osseo.

La vera svolta che portò alla nascita di una terapia immunosoppressiva efficace si ebbe negli anni Sessanta. Nel 1963 a Washington si tenne il congresso del National Research Council: Murray riferì che con l’utilizzo della azatioprina un solo paziente su dieci era sopravvissuto ad un anno dal trapianto: questi risultano non era per nulla incoraggianti, ma nella stessa sede, il chirurgo Thomas Starzl, che pochi anni dopo sarebbe diventato il padre del trapianto di fegato, comunicò i risultati del suo trattamento immunosoppressivo nel quale all’azatioprina aggiungeva il prednisone, raggiungendo una sopravvivenza ad un anno dal trapianto del 70%.

Il lavoro di Starzl fu fondamentale, tanto che nel volgere di un anno si passò dai soli tre centri di trapianto renale (Boston, Denver e Richmond) ad una cinquantina.

Nel nostro paese il primo trapianto di rene fu portato a termine il 3 maggio 1966 da Paride Stefanini, Carlo Umberto Casciani e Raffaello Cortesini presso la II Clinica Chirurgica del Policlinico Umberto I di Roma: la paziente era una donna di 30 anni di Assisi, Franca Tordini.

Da quel momento, la strada che finora era stata costellata di vicoli ciechi, tornanti e salite tortuose, fu finalmente in discesa. Le scoperte più importanti nei decenni successivi furono l’introduzione della ciclosporina nel trattamento antirigetto, sostituita tempo dopo dal tacrolimus.  

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