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LUCE VERDE.

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Da alcuni anni, sentiamo ormai nominare il “verde” come colore di riferimento per ogni attività umana.
Dai temi di economia (la green economy) ai temi della innovazione tecnologica, ai temi della medicina, dell’edilizia e persino delle vacanze.
Tutto diventa verde: basta nominare il colore, e l’esorcismo è compiuto.
Automaticamente, aggiungendo l’aggettivo “verde” a ciascuna delle attività umane, il mondo intero torna a sorridere, un clima bucolico avvolge cose e persone, e ci immerge immediatamente nel grembo di una natura che ci aspetta a braccia aperte.
Purtroppo e malauguratamente, la scienza e la statistica si ostinano a “boicottare” queste alchimie di linguaggio, ed a inchiodarci i piedi alla solida realtà.
Da tempo stiamo avvelenando, in modo del tutto scriteriato e scellerato, il pianeta nel quale viviamo.
Abbiamo saturato la nostra casa di veleni, riempiendola di ogni genere di immondizia, un po’ come quegli accumulatori seriali che non riescono a separarsi neppure dalla spazzatura, finendo per consentire alle proprie manie di soffocare la propria esistenza.

Il Doomsday Clock
La situazione è grave, l’allarme è stato lanciato più volte.
Nel 1947 gli scienziati che collaboravano con la rivista Bulletin of the Atomic Scientist si ponevano un problema di sicurezza pubblica legata all’uso delle armi nucleari e alle armi di distruzione di massa, considerando quello che già era successo proprio nel finire della seconda guerra mondiale con il bombardamento delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, e delle innovazioni tecnologiche e scientifiche sull’uso delle armi.
Il nome della rivista pubblicata era Bulletin of the Atomic Scientist of Chicago, fondata dagli scienziati che avevano collaborato con il progetto Manhattan; l’intento era quello di rendere pubblico il dibattito sui concreti pericoli di distruzione del pianeta a causa di una guerra atomica. Gli scienziati, per fornire una concreta percezione del pericolo, ipotizzarono un metaforico orologio del mondo, nel quale la mezzanotte indicasse l’ora della fine che dovrà riguardare tutta l’umanità.
Ebbene, alla data di figurativa ideazione di questo orologio, nel 1947 appunto, gli scienziati avevano ipotizzato che per arrivare alla fine del mondo mancassero soltanto 7 minuti.
Il pericolo, allora, era rappresentato, da un punto di vista scientifico, unicamente dalla minaccia nucleare: per questo, le considerazioni degli scienziati avevano impostato le lancette dell’ “orologio dell’apocalisse” alle 23,53.
Successivamente, però, altri pericoli hanno indotto gli scienziati a compiere una revisione a tutto tondo dei reali rischi che affrontati dall’umanità dal 1947 ad oggi.
Uno degli elementi di maggior peso, malgrado i tentativi compiuti addirittura da una parte della scienza e, sicuramente, da a parte di tutta quella pseudo scienza che accompagna le politiche decisionali delle multinazionali che avvelenano il pianeta, è quello del cambiamento climatico e della questione relativa all’inquinamento globale.
Per darvi cognizione della misura del pericolo, occorre considerare che l’”orologio dell’apocalisse” (Doomsday Clock) dal 1947 ad oggi è stato spostato ben 23 volte. Alcune volte, secondo gli scienziati del Bulletin, l’umanità è riuscita a “guadagnare” del tempo, come possiamo vedere nel grafico sottostante.

Ci troviamo oggi alla soglia della mezzanotte: le lancette sono state posizionate 90 secondi prima della mezzanotte, proprio in relazione agli ultimi eventi della guerra in Ucraina, che peraltro rischia di innescare situazioni di conflitto senza ritorno.

Non vogliamo addentrarci nella questione politica relativa al conflitto, e neppure possiamo azzardare previsioni su sviluppi condizionati dalle scelte di alleanza e/o di convenienza dei singoli Stati e dei loro apparati politici.
Possiamo però confrontarci, da un punto di vista etico e razionale, con lo stile di vita che ciascuno di noi, singolarmente e personalmente, ha deciso di adottare e con l’impatto che attualmente ha sul pianeta terra.

L’Earth Overshoot Day
Nel 1996 l’ecologista William Rees della University of British Columbia, unitamente ad un suo studente Mathis Wackernagel, ha pubblicato il libro “Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on Earth”.
Successivamente a questa pubblicazione, dal 1999 il WWF ha tenuto un calcolo periodico sull’”impronta” ecologica dell’attività umana sul pianeta, nel suo Living Planet Report.
Nel 2003 Mathis Wackernagel, unitamente ad altri, ha fondato il Global Footprint Network, con lo scopo di misurare l’impronta ecologica dell’attività umana sul pianeta sulla base di criteri e dati empirici.
Il network può contare sulla collaborazione di 22 paesi, individuati sia come entità nazionali sia nelle loro suddivisioni territoriali locali (per l’Italia anche alcune regioni e provincie con la collaborazione degli enti universitari).
Il concetto di impronta ecologica si propone di misurare l’area biologicamente produttiva, di mare e di terra, necessaria a rigenerare le risorse consumate da una certa popolazione umana ed a riassorbire i rifiuti prodotti. Con “l’impronta ecologica” è possibile stabilire quanta porzione di territorio sarebbe necessaria per sostenere tutta la popolazione, ovvero se il pianeta terra sia o meno sufficiente.
Confrontando la quantità di territorio disponibile per ogni persona, con l’impronta ecologica di un individuo o di una realtà territoriale, possiamo capire se il livello dei consumi sia sostenibile o meno sufficiente alle esigenze di tutta la popolazione umana.
L’impronta ecologica si può stabilire sia sotto il profilo alimentare sia sotto il profilo energetico, con il calcolo di emissione del diossido di carbonio.
Il Global Footprint Network ha così stabilito i criteri di calcolo per determinare l’Earth Overshoot Day, ovvero il giorno del superamento: preso un anno di riferimento, si determina la data che corrisponde al giorno in cui l’uomo ha consumato tutta la biocapacità del pianeta.
Il limite annuale viene ormai stimato costantemente insufficiente dal 1970.
Per il 2022 la data del superamento è indicata nel 28 luglio, con 208 giorni di risorse sufficienti e 156 giorni in overshoot.
Rimandiamo ai relativi siti istituzionali, per la verifica dei criteri di calcolo e dei risultati dei singoli anni.
Sebbene i singoli criteri di valutazione possono essere soggetti a critiche, e dare luogo a parziale scetticismo, l’incrocio dei dati e dei risultati non lascia alcuno scampo ai discorsi negazionisti.
L’assurdità della situazione in cui viviamo attualmente, è costituita dal fatto che le questioni reali le affrontiamo come se fossero situazioni ipotetiche e virtuali, relative a scenari che forse neppure si presenteranno; rendiamo invece reali alcune ottimistiche ipotesi, del tutto virtuali e totalmente irrealizzabili.
L’uomo moderno ha, anzitutto, perso completamente il contatto con il mondo naturale, col proprio ambiente di provenienza, con la naturalità fisiologica del proprio essere inserito nella natura.
Ormai i contesti urbani, con tutte le loro distorsioni e alienazioni, hanno sostituito l’ambiente naturale, determinando una serie di effetti irreversibili che si sono manifestati dapprima in contesti locali, per poi confluire insieme in un generalizzato effetto globale.
Soltanto una recente sensibilizzazione ha indotto una parte della scienza a porsi delle domande ed a studiare di più la natura che ci ha fatto da madre in tempi ormai lontani.
Con la ricerca di energie rinnovabili e pulite, abbiamo preso coscienza che la natura aveva già operato in tal senso, realizzando organismi perfetti che ci hanno preceduto nella loro presenza su questo pianeta, adattandosi praticamente ad ogni clima, e recando infiniti benefici con la loro silenziosa esistenza.
Il mondo vegetale in generale, e quello degli alberi in particolare, avrebbe dovuto insegnarci molto sull’adattamento, sull’integrazione, sul rispetto dell’ambiente, sull’efficienza, sulla condivisione, sulla sinergia.
Nel mondo “civile” la vita viene studiata come episodio singolo, legato alla nascita di un individuo ed alla sua sopravvivenza nell’ambiente circostante, e da sempre è stata pensata ed insegnata come lotta, competizione, capacità di adattamento ed annientamento di tutto ciò che si manifesta avverso.
Non è mai stata insegnata un’etica dell’integrazione, del rispetto, della convivenza, della condivisione, della reciproca utilità, se non in contesti che noi oggi definiremmo tribali e primitivi. Molto avremmo dovuto imparare dalle piccole comunità umane perfettamente integrate nelle foreste, nelle isole, nelle savane, nelle steppe.
La natura che per millenni ci ha ospitato, offerto una casa, donato la possibilità di sopravvivenza anche in condizioni ostili, ora manifesta tutta la propria insofferenza alle profonde ferite inferte, ai continui e quotidiani tentativi di avvelenamento.
Per questo motivo, l’aggettivo di colore ad ogni umana attività sembra più essere il grigio che il verde: il grigio dei cieli delle nostre città, il grigio delle strade e dell’asfalto, il grigio del mare e della terra avvelenati e privi di vita.
Siamo gli ultimi arrivati: dobbiamo ancora conoscere i nostri vicini di casa, ed imparare da loro le regole di convivenza nel contesto in cui siamo stati inseriti.
Soltanto da pochi anni gli scienziati hanno scoperto che gli alberi comunicano sempre, con una rete fatta di segnali chimici che si trasmettono attraverso le radici. Le radici si connettono tra loro, mettendo in comunicazione più organismi. I messaggi ed i contenuti di tali comunicazioni sono per noi ancora sconosciuti.
Negli oceani gli organismi comunicano tra loro con segnali sonori, chimici e di bioluminescenza. La nuova ultima missione scientifica si svolge a bordo della Joides Resolution, nave da perforazione petrolifera trasformata poi in nave scientifica, che ha il compito di esplorare con geologi, geochimici e microbiologi il massiccio sottomarino denominato Atlantico, alla ricerca della vita nelle profondità abissali.
Il compito del nostro prossimo futuro è da un lato di cercare rapidamente di conformarci ed integrarci nell’ambiente naturale, interrompendo immediatamente i processi di scriteriato sfruttamento e trasformazione del territorio, e dall’altro quello di approfondire la conoscenza e la comunicazione con il mondo naturale, cercando di apprendere dalle soluzioni adottate dagli organismi del mondo naturale, soprattutto nel mondo vegetale, la strada per ricavare energia in forma ecologicamente compatibile, e il modo di abbattere il quantitativo di CO2 nell’atmosfera. Sarebbe già questo un primo modo per invertire la rotta ed ottenere risultati nel breve periodo. Segnaliamo qui di seguito due esempi interessanti.

La verde muraglia cinese
La Cina occidentale, negli ultimi anni, è stata interessata da gravissimi fenomeni di desertificazione nella fascia adiacente al deserto del Gobi.
Il deserto in questione si è notevolmente espanso a causa dello sfruttamento dissennato del territorio e di politiche agricole disastrose, che hanno comportato la desertificazione dei terreni agricoli e l’annessione degli stessi alle aree desertiche.
Il risultato è stato quello di far espandere le aree desertiche, e causare tempeste di sabbia apocalittiche, che più volte hanno interessato anche la capitale Pechino.
Nel 1978 è stato approvato il “Three North Shelter Forest Program” , la più grande impresa di riforestazione mai tentata a livello mondiale. Il termine Three-North si riferisce alle 3 regioni a Nord della Cina (Dongbei, Huabei e Xibei) e sta a indicare l’impegno a coinvolgere tutte le aree interessate dal problema. Al programma partecipano 13 province e 725 contee.  Shelter forest significa foresta di riparo, ovvero una vera e propria barriera  verde, che confina il deserto con una cintura e capace di fermare anche le nuvole di sabbia. Si tratta probabilmente di uno dei più grandi piani ambientali in atto nel mondo. Il muro di alberi progettato, dovrebbe avere una larghezza tra i 256 ed i 537 metri ed una lunghezza si 4.480 chilometri. L’obiettivo che ci si è posto è quello di aumentare la copertura di foreste nelle regioni interessate dal 5% al 15%, nonché di modificare le condizioni climatiche dei terreni adiacenti la foresta, rendendoli sfruttabili e coltivabili, con grande beneficio per l’ambiente e per la popolazione. I limiti del progetto, e le difficoltà del suo avanzamento, sono connesse alla scelta di una monocoltura di pioppo nero, molto veloce nella crescita, tuttavia particolarmente bisognoso di acqua e soggetto al rischio di malattie vegetative, che ne hanno più volte compromesso la sopravvivenza.

Great Green Wall cinese.

Il Great Wall in Africa
Anche in Africa si è voluto adottare un progetto similare per fermare il deserto del Sahara.
Nel 2007 è stato avviato il progetto Great Green Wall of Africa, che ha visto 11 nazioni firmatarie ed altre 20 sostenitrici.
Il progetto africano è ancora più imponente di quello cinese: si tratta della realizzazione di un muro di 7.775 chilometri di lunghezza e di 15 chilometri di larghezza lungo tutto il suo percorso, praticamente dalle coste occidentali della Mauritania e Senegal, fino a quelle orientali di Etiopia ed Eritrea.
Il progetto ha finalità molteplici, quali quella di fermare la desertificazione dei territori, di stabilizzare il clima dell’area, di rendere coltivabili milioni di ettari di terreni e di consentire di sfamare un grande numero di persone.
L’operazione viene effettuata principalmente con la coltivazione di Paulownia, pianta originaria della zona temperata boreale, i cui resti fossili sono stati ritrovati anche in Piemonte dove, recentemente, sono state reintrodotte alcune coltivazioni. Tale albero ha la caratteristica di crescere velocemente (anche 5 – 6 metri in un anno), di assorbire un grande quantitativo di CO2 rispetto alle altre piante, di resistere molto bene alla siccità, di fornire in poco tempo un grande quantitativo di legname leggero ed utilizzabile per le lavorazioni di falegnameria, e con le grandi foglie fornisce anche cibo per il bestiame da pascolo, contenendo un apporto proteico doppio rispetto al mais.
La soluzione della Paulownia sembra avere un successo più consistente rispetto a quella adottata in Cina.
Prendiamo a modello questi progetti, e ci auguriamo che altri ne seguano anche di caratura territoriale ridotta, che magari possa interessare i contesti urbani o suburbani di molti insediamenti umani.
Vorremmo poter presto descrivere il successo di una fattiva presa di coscienza e di numerose iniziative del tipo di quelle sopra indicate, che ci consentano di rimettere l’orologio della terra verso una tarda ora pomeridiana illuminata da una tenue e diffusa luce verde.

Paulownia Tomentosa.

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