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LE VESTIGIA: GLI INDIZI LASCIATI SULLA STRADA DELL’EVOLUZIONE.

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Come ci insegna la teoria dell’evoluzione, nel corso dei millenni, gli organismi si modificano, sulla spinta della pressione evolutiva, selezionando quei soggetti che meglio si adattano all’ambiente; concetto ben diverso da quello della prevalenza del più forte: in natura, infatti, è il più adatto che sopravvive. Una mutazione casuale può determinare una caratteristica, anche apparentemente limitata, che garantisce ad un singolo soggetto un vantaggio rispetto ai propri simili, vantaggio che si traduce in una migliore sopravvivenza e ad un aumento della possibilità di riprodursi e di trasferire alla propria progenie il patrimonio genetico. In questa maniera, dopo molte generazioni, si vengono a selezione appunto i caratteri più adatti alla sopravvivenza della specie nel proprio ambiente, fino ad arrivare, dopo un processo lento se comparato alla scala umana, alla nascita di nuove specie.

Il processo evolutivo non riguarda perda però sempre l’aggiunta di caratteristiche nuove, ma si può determinare anche mediante la perdita di funzioni o strutture meno utili.

Con il termine “vestigia”, che deriva dal latino con il significato di “orma” o “impronta”, si intendono alcune strutture dell’organismo di un essere vivente, note anche come organi vestigiali, residuo di elementi organici che presentavano una funzione che nel tempo è stata persa a seguito dell’evoluzione della specie, del quale fenomeno possono essere considerate come una prova, ma ancora persistenti nella struttura anatomica o fisiologica, seppur spesso con confermazione involuta.

Si tratta pertanto di strutture che possono non avere un reale ruolo funzionale, oppure, se ancora presente, lo hanno molto limitato, rispetto all’uso originario.

Non fa eccezione a questo argomento la nostra specie, Homo Sapiens.

Un esempio noto a tutti è la presenza nell’intestino cieco dell’appendice vermiforme, una struttura anatomica che dà segno di sé solo quando si infiamma, con effetti potenzialmente gravi e pericolosi; in questo caso si tratta di una porzione del nostro apparato digerente, molto più sviluppata non solo nei nostri progenitori, ma anche in altre specie animali attuali. La mancanza di funzione assorbitiva dell’appendice umana sembra essere dovuta ad una involuzione di un organo non più strettamente necessario, probabilmente a cause di modifiche dietetiche.

Quando mettiamo a confronto l’uomo moderno con le attuali scimmie, ma anche con l’ipotetico aspetto degli ominidi a noi precedenti e con le antiche scimmie antropomorfe, uno degli aspetti che più risalta, nelle differenze tra specie strettamente imparentate tra loro, è la rappresentazione dei peli. L’opinione comune è quella che porta a pensare che il genere Homo abbia progressivamente perso i peli, ma non è proprio così. In realtà le strutture pilifere che in un nostro cugino come lo scimpanzé sono evidenti e rappresentate, si sono involute sull’ apparato tegumentario umano in quelli che vengono definiti come “peli folletto”; la nostra evoluzione ha determinato, infatti, una progressiva atrofia della peluria, sostituita progressivamente dalla presente di piccolissimi peli, molto fino e non pigmentati, che ricoprono tutta la nostra pelle, ma sono di fatto quasi invisibili, e molto difficili da individuare.

Un’alta struttura interessante è quello che viene chiamato “Tubercolo di Darwin”, si tratta di un ispessimento, non costante nella popolazione, del padiglione auricolare, probabile residuo dell’articolazione che permetteva ai nostri antenati di orientare le orecchie verso i suoni; inoltre in alcuni soggetti è presente una conformazione muscolare e propriocettiva tale da permettergli un piccolo movimento delle orecchie (memorabile una scena di Ace Ventura interpretato da Jim Carrey), ma non ubiquitaria di tutta la popolazione umana.

Come nel caso dell’appendice, esiste una altra vestigia con ruolo limitato, ma in grado di causare situazioni molto fastidiose: i denti del giudizio. Strutture dentarie importanti nella frantumazione di vegetali e cibo coriacei, in quel tipo di dieta gli ominidi avevano bisogno di un maggior numero di molari; nel corso dell’evoluzione, al cambiamento delle abitudini alimentari, la nostra mascella si è ridotta di volume, così come lo spazio disponibile. Pertanto in quei soggetti in cui gli ultimi molari riescono a svilupparsi, bene, nella giusta direzione e posizione, non si determinano problematiche meccaniche alla masticazione; al contrario, invece, in altri soggetti, il ridotto spazio porta a tutta una serie di alterazioni nello sviluppo dei denti del giudizio che possono causare una serie di problematiche tali da rendere necessaria la loro rimozione.

Nel nostro organismo sono pertanto presenti diversi “ricordi” del nostro passato evolutivo, alcuni evidenti come il coccige o la plica semilunare, residui rispettivamente di una coda e di una membrana nittitante che non abbiamo più, altri, invece, nascosti nel nostro DNA, come sequenze genomiche attualmente silenti, ma una volta deputate a codificare enzimi che concorrevano al corretto funzionamento dell’intero organismo.

L’evoluzione è un meccanismo di miglioramento e adattamento di una specie al proprio ambiente, ma si tratta di un processo lento, che lascia segni lungo la sua strada.

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