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LE MISTERIOSE NAVI DI CALIGOLA.

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Nemi, 1° giugno 1944: i soldati tedeschi in ritirata appiccano un incendio che riduce in cenere un’eredità culturale romana di incalcolabile valore storico. È uno degli ultimi atti scellerati di un esercito di occupazione, compiuto per puro sfregio nei confronti dei nostri tesori archeologici e artistici, oltre ai crimini commessi contro l’inerme popolazione italiana. Ma cosa venne distrutto quella notte?

Il bosco e il lago

Ci troviamo a Nemi, a poca distanza da Roma, sui Colli Albani, un pittoresco borgo medievale arroccato sul bordo del cratere vulcanico che nel corso del tempo si è riempito d’acqua dando origine al lago odierno. Il Lago di Nemi, detto lo Speculum Dianae (Specchio di Diana), è indubbiamente un luogo straordinario, magico, perfino un po’ inquietante, un luogo che ancora oggi conserva gelosamente molti dei suoi misteri che affondano le radici nel passato più lontano del Lazio. Uno di questi è l’arcaico (e un po’ sinistro) Tempio di Diana Nemorense. Sulla riva settentrionale del lago sorgeva un Bosco Sacro (“Nemus”, in latino significa appunto “bosco”) al cui centro, da tempi immemorabili, si innalzava un grandioso complesso cultuale dedicato ad una divinità femminile senza nome, forse una dea madre che successivamente venne identificata come Diana, la dea una e trina, la dea lunare che si rispecchiava in quel lago sacro e misterioso. E non era un tempio come tutti gli altri: il sacerdote deputato ad officiarne i riti, il Rex Nemorensis aveva come suo successore colui che lo avrebbe ucciso. Tenetelo presente, perché nel corso dell’articolo scoprirete perché questo aspetto esoterico sia così fondamentale alla comprensione del mistero.

La leggenda

Non sorprende quindi che in un simile contesto, la leggenda dell’esistenza di due immense navi sommerse sul fondo del lago, cariche di favolosi tesori, trovasse terreno fertile. Iniziata a circolare sin dal I secolo d.C. e per tutto il Medioevo, accreditata ogni tanto dal ritrovamento occasionale di strani reperti da parte dei pescatori, tale leggenda era resa ancora più incredibile a causa delle ridotte dimensioni del lago, di soli 1,67 km quadrati. Cosa ci facevano due navi in una così ridotta porzione d’acqua? Per generazioni si tramandò una storia da caminetto. Si raccontava persino che nelle giornate particolarmente limpide, qualcuno dalla sua barca pareva avesse scorto sul fondo delle forme mostruose. Nessuno poteva o voleva verificare se la leggenda avesse qualcosa di vero, anche perché non ci si poteva immergere a 33 metri di profondità.

I primi tentativi

Il primo a raccogliere le voci sulle favolose navi fu, attorno alla metà del XV secolo, il Cardinale Prospero Colonna il quale volle appurare quanto di vero ci fosse in quelle voci. Fece quindi chiamare l’architetto, umanista ed ingegnere idraulico Leon Battista Alberti che, impiegando botti vuote e nuotatori esperti, scorse sul fondo del lago un relitto di proporzioni inaudite. Si cercò addirittura di riportarlo a galla con degli uncini, con l’unico risultato di strapparne via una parte. La leggenda, quindi, era vera!

Nel 1535, il bolognese Francesco de Marchi compì una serie di immersioni con le quali determinò le dimensioni dello scafo più vicino a riva e il suo stato di conservazione, utilizzando una speciale campana di legno munita di oblò che proteggeva la parte superiore del corpo lasciando libere braccia e gambe, permettendo la respirazione.

Nel 1827, a opera del Cavalier Annesio Fusconi, venne ripresa l’esplorazione del fondo del lago con una “campana di Halley”, che gli consentì di recuperare pezzi di pavimento in porfido e serpentino, smalti, mosaici, frammenti di colonne metalliche, chiodi, laterizi e tubi di terracotta.

Il 3 ottobre 1895 un provetto palombaro individua una delle navi e recupera una bellissima ghiera in bronzo di un timone lavorata a rilievo con una testa di leone. A condurre l’operazione fu l’antiquario Eliseo Borghi, su incarico dei Principi Orsini, proprietari del lago, e autorizzato dal Regio Ministero della Pubblica Istruzione. Vengono riportati alla luce anche attrezzi e oggetti, pilastrini in bronzo, protome ferine, tegole in rame dorato, mosaici, lastre in porfido, laterizi, ma anche rulli sferici e cilindrici, testimonianza delle conoscenze tecniche romane, che fanno ipotizzare la presenza sulle navi di piattaforme girevoli. Emersero anche delle fistole in piombo con il nome di Caligola, il che fece mutare l’ipotesi iniziale che la nave fosse appartenuta all’imperatore Tiberio. Il 18 novembre di quello stesso anno fu rinvenuto a poche centinaia di metri dal primo, un secondo scafo da cui emerse una trave con in rilievo un braccio e una mano. La maggior parte del materiale recuperato viene acquistato dal Museo Nazionale Romano, mentre altri reperti prendono la strada del mercato antiquario e clandestino: è il caso di una testa bronzea di Elios, scomparsa; di una statua trafugata, mentre altre giunsero al British Museum; di un elmo che finì a Berlino; di una statuetta di Eros, al Museo dell’Ermitage; di ben 400 metri di travi e listelli lignei che, estratti e depositati sulle rive in attesa di poterli ricomporre, finirono per marcire e divennero…legna da ardere.

La conservazione

Per questi motivi si fece sempre più pressante l’esigenza di mettere in sicurezza, una volta per tutte, lo straordinario insieme di opere incastonate sul fondale del lago di Nemi. Il Regio Ministero della Pubblica Istruzione impose quindi la cessazione dei tentativi di recupero che stavano progressivamente demolendo gli scafi e, in collaborazione con il Ministero della Marina, iniziò la fase delle ricerche condotte con rigore scientifico. L’incarico venne assegnato all’ingegnere Vittorio Malfatti, tenente colonnello del Genio Navale: nel corso del 1895 e del 1896, Malfatti identificò con certezza posizione e stato delle due navi, eseguì il rilievo generale del lago ed esplorò la parte accessibile dell’emissario. Scartando l’ipotesi di un sollevamento diretto degli scafi, propose di abbassare il livello delle acque del lago. La sua proposta ottenne il favore e le adesioni della comunità scientifica, ma i tempi non erano ancora maturi per un intervento.

Si passa all’azione

Bisognerà attendere il 1926 e l’avvento del Fascismo perché le teorie diventino realtà. Corrado Ricci, archeologo, storico dell’arte nonché senatore del Regno d’Italia, venne nominato presidente di una commissione di studio che adottò la proposta di Malfatti: svuotare parzialmente il lago per recuperare le navi.

Nel 1927 Benito Mussolini annunciò l’inizio dei lavori per recuperare i relitti: ci si sarebbe serviti di un’antica galleria di drenaggio di epoca romana che collegava il lago con i terreni agricoli circostanti e che, forse, serviva forse ad abbassare il livello delle acque quando queste minacciavano di sommergere il santuario di Diana. I lavori durarono cinque anni, dal 1928 al 1932 e furono l’opera di salvataggio subacqueo più importante mai compiuta fino ad allora. Grazie all’interessamento gratuito dell’ingegner Guido Ucelli e alla fornitura della strumentazione necessaria da parte della Riva Calzoni di Milano, uno dei gioielli dell’industria meccanica di precisione italiana di inizio-metà ‘900, gli sforzi furono coronati da un successo senza precedenti.

Uno straordinario recupero

E fu così che, con l’abbassamento di oltre 20 metri del lago, le navi rividero la luce dopo oltre 1900 anni, anche se molto danneggiate dai primi tentativi di recupero. Le loro dimensioni erano impressionanti: palazzi galleggianti dalle misure mastodontiche (70×20 e 73×24), si presentavano ornate di mosaici e pietre preziose, rivestimenti in marmo pregiato, riscaldamento e dotate di ogni confort e lusso oltre ogni misura.

In un primo tempo le navi vengono ricoverate sulla riva del lago, protette da teloni bagnati che limitavano l’essiccazione del legno, e da un hangar per dirigibili.

Successivamente venne costruito il Museo delle Navi Romane, progettato dall’architetto Vittorio Ballio Morpugo. Nel 1935 la prima nave viene trainata all’interno dell’edificio; il 20 gennaio 1936 viene posizionata la seconda. Solo dopo venne terminata la facciata del museo, che fu inaugurato il 21 aprile 1940.

Capolavori di ingegneria

Sebbene degli edifici ospitati sul ponte non fosse rimasto molto, analizzando tuttavia la struttura delle navi, che dovevano essere state progettate appositamente per sostenere carichi ben localizzati, si iniziò ad ipotizzare su come dovessero presentarsi. Secondo una recente ricostruzione, la prima nave ad essere scoperta fungeva da residenza di svago, straordinaria appendice mobile della villa imperiale situata sulla piana antistante il lago. Verso poppa doveva presentare degli ambienti chiusi, splendidamente ornati e riscaldati, mentre dalla parte opposta vi erano probabilmente sacelli e padiglioni. Non era dotata di alcuna propulsione autonoma (non vi era spazio per i rematori), ma doveva essere trainata plausibilmente da due barche più piccole.

La seconda nave svolgeva invece una funzione cultuale, come testimoniato dal rinvenimento di oggetti sacri, come un sistro, forse alla venerazione di Iside. Si trattava di una nave colossale, lunga come cinque campi da tennis posti l’uno di fianco all’altro. Anche in questo caso la chiglia non offriva lo spazio sufficiente per i rematori, pena la compromissione della galleggiabilità, ma era fasciata sui lati lunghi da due piattaforme nelle quali trovavano posto i diversi ordini di vogatori; quattro enormi timoni, due a prua e due a poppa, garantivano una efficiente manovrabilità.

Le navi erano dei capolavori architettonici ed ingegneristici mozzafiato: e l’intento di Caligola era proprio questo, stupire. Per esaudire la volontà dell’imperatore (folle?) non si badò a spese nella realizzazione, ed i risultati, a duemila anni di distanza, potevano ancora essere colti nella loro straordinarietà. Tramite i reperti, si scoprì che la realtà superava le ipotesi fino ad allora formulate, rivoluzionando le conoscenze sulle capacità tecniche dei Romani. La chiglia evidenziava la notevole perizia raggiunta nell’arte della carpenteria, con l’utilizzo di legnami differenti per le varie parti sottoposte a sollecitazioni idrodinamiche differenti e con l’assemblaggio delle giunzioni e delle travi pressati da maggior sforzo. Per distribuire in maniera equivalente l’incredibile peso sovrastante su tutta la superficie dello scafo, fu ideato un sistema di pilastri lignei perpendicolari, in corrispondenza dei quali vi erano poste poi le suspensurae, pilastrini in mattoni sulle quali poggiavano il pavimento e gli edifici ospitati dall’imbarcazione.

Durante le operazioni di svuotamento del lago furono rinvenute anche due grandi ancore, una rivestita di metallo, e una in legno non più conservata. Sul ceppo di quella in metallo venne anche riportato il peso: 1275 libbre romane, ossia 417 kg! Inoltre, la loro particolarità era quella di essere a ceppo mobile. Che vuol dire? Che l’asse perpendicolare al fusto dell’ancora era smontabile. Tale innovazione tecnica era creduta, prima della scoperta delle navi, più tarda di secoli.

La carena era composta da vari strati che rendevano lo scafo impermeabile e isolato termicamente. Le analisi paleobotaniche e chimiche evidenziarono che la chiglia era spalmata con minio di ferro, mentre l’impermeabilizzazione era garantita da una miscela di pece vegetale, bitume e colofonia, il tutto ricoperto da fogli in piombo tenuti in sede da una fitta chiodatura. Inoltre, vi erano anche diverse pompe di sentina, atte a travasare l’acqua penetrata nello scafo fuori bordo.

Ma le sorprese non finivano qui. Venne infatti scoperto un disco in legno con delle sfere di metallo fissate lungo la circonferenza: queste ultime servivano a ridurre l’attrito durante la rotazione del disco, in base allo stesso principio dei moderni cuscinetti a sfera. Forse servivano per far ruotare delle sculture, come riferito dallo storico romano Svetonio, che fece una descrizione delle navi: in essa parla di prue come gioielli, sculture ruotanti su sfere di piombo, vasi d’oro e d’argento, vele di seta viola, bagni di bronzo e alabastro…

Le fistole acquatiche rinvenute fanno pensare che sulla nave che fungeva da residenza dovesse esserci una cisterna nella quale veniva fatta confluire l’acqua da appositi collettori posti sui moli e dalla quale dovevano poi dipartirsi varie condutture di servizio per le diverse parti dell’imbarcazione.

Una delle navi distrutte dall’incendio.

Perché furono costruite?

Ancora oggi le navi stupiscono per la loro tecnologia avanzata, come stupisce il fatto che furono costruite in un lago vulcanico di ridotte dimensioni dove, di fatto, non potevano navigare. Prima di tutto, dobbiamo considerare che il loro committente fu Caio Giulio Cesare Germanico, imperatore tra il 37 e il 41 d.C. meglio conosciuto come Caligola. La sua figura è una delle più controverse della famiglia Giulio-Claudia, entrata nell’immaginario collettivo come eccentrica, stravagante, dispotica, depravata. Il ritratto che dipinge Svetonio ne fa l’emblema della degenerazione del potere assoluto: tanta era la potenza accentrata nelle sue mani che, al culmine del suo regno, avrebbe voluto essere innalzato al rango di divinità. Molte le ipotesi formulate sul motivo per cui le navi furono costruite: per alcuni la prima nave era un tempio galleggiante dedicato a Diana, mentre la seconda era un rifugio per il despota dai mille vizi. Altri sostengono che Caligola costruì le navi per dimostrare la supremazia di Roma sui Siracusani (vi rimando a tal proposito ad un mio precedente articolo sulla famosa imbarcazione Syrakusia), mentre per altri ancora venivano usate per simulare battaglie navali. Tutte ipotesi interessanti, ma che secondo me aiutano poco alla comprensione della realtà. Difficile credere che l’individuo più potente del mondo dovesse andare fino a Nemi per sfogare i suoi vizi, come altrettanto difficile credere che le navi siano solo il frutto di una megalomania che possiamo ritrovare oggi nei moderni e un pò volgari oligarchi russi. Esiste un’altra ipotesi, secondo noi più credibile, e cioè che la volontà di andare al di là dell’umano portò Caligola, stando agli antichi scritti, a ritenersi a tal punto divino da voler giacere con Selene, la Luna, emblema femminile per eccellenza. E il lago di Nemi (lo Specchio di Diana, appunto) era dunque il luogo perfetto dove celebrare questa unione.

E qui ci ritroviamo all’inizio di questo articolo, dove abbiamo detto che Nemi era sacra a Diana, in parte assimilabile alla greca Artemide e al cui rito era addetto il Rex Nemorensis. Ebbene, secondo Svetonio, Caligola fece trucidare il sacerdote allora in carica perché da troppo tempo nessuno era riuscito a vincerlo, rinnovando un antichissimo culto laziale che stava ormai scomparendo. Connessa alla figura di Diana-Artemide sappiamo essere l’emblema lunare: come Apollo, il gemello, è simbolo del Sole e dell’Uomo, così la dea incarna la Luna e quindi la Donna. Ne consegue che l’imperatore è come il Sole, che è benefico e porta la luce, dona la vita. È il principio maschile per eccellenza. E affinché vi sia equilibrio, prosperità, felicità, è necessario che si congiunga con l’altro principio universale, il femminile. Ecco dunque che l’unione sacra, la ierogamia, diventa un atto imprescindibile per garantire benessere a Roma, all’Impero, al mondo. A conferma di questa suggestiva ipotesi viene ad aggiungersi un elemento fondamentale come il culto orientale della dea Iside, venerata nello stesso santuario di Diana e sicuramente su una delle navi, come il ritrovamento del già citato sistro lascerebbe supporre.

Il lago di Nemi verrebbe così a costituire il fulcro di un’unione sacra: di forma circolare, abbastanza piccolo da poter essere abbracciato interamente in un sol colpo d’occhio, sacro a Diana e ad Iside, può divenire nelle notti di luna piena la temporanea dimora dell’astro notturno, concretizzato nella forma di un palazzo galleggiante nel quale risiede l’imperatore-sole, e venerata nel tempio galleggiante al centro della superficie acquatica.

Ripetiamo che questa è solo un’ipotesi che potrebbe spiegare il motivo per cui furono costruite tali meraviglie. Per quanto folle e megalomane potesse essere stato il ragazzo, esse non potevano essere, ripetiamo, il solo frutto di un capriccio. La location e il culto antico in essa praticato possono giustificare un approccio di carattere misterico alla faccenda.

Comunque sia andata, la tracotante follia di Caligola fu punita con il suo assassinio da parte della Guardia Pretoriana, e il suo nome fu condannato alla damnatio memoriae per cui venne cancellata ogni cosa lo potesse ricordare, eliminando il suo nome dai monumenti e dai documenti ufficiali, come se non fosse mai esistito. E anche le sue grandiose navi vennero colpite dalla maledizione: prima abbandonate a sé stesse e saccheggiate, quindi affondate e dimenticate. Solo la popolazione locale, di generazione in generazione, ne preservò il ricordo, diluendolo nei fumosi strali del fiabesco ed ammantandolo nelle vesti della leggenda.

La fine

Quella delle navi di Nemi sembrerebbe una storia a lieto fine: finalmente protette dentro un Museo appositamente costruito per esse, possono rivelarsi all’ammirazione dei posteri. Purtroppo non fu così. Nel 1944 un distaccamento di truppe tedesche si era asserragliato a Nemi, presso il Museo, con 4 cannoni di artiglieria. Verso la fine di maggio, la batteria tedesca venne individuata dagli Alleati che bombardarono la zona antistante il Museo, senza però causare danni all’edificio, all’interno del quale i tedeschi nel frattempo avevano trovato riparo. La sera del 31 Maggio si svolse un grande conflitto a fuoco, che vide gli Alleati cannoneggiare i dintorni del Museo sino alle 20,15. Alle 21,20 i custodi osservarono un lume aggirarsi all’interno dell’edificio e alle 22,00, quindi un’ora e tre quarti dopo la fine dei bombardamenti, il fuoco divampò all’interno del Museo, mandando in cenere un’eredità culturale romana custodita dalle acque del lago per due millenni. Il 1° giugno il Museo risultò interamente distrutto e i nazisti abbandonarono la postazione il 2 Giugno. Due giorni dopo gli statunitensi giunsero sul luogo, ma per le navi romane non c’era più nulla da fare: erano perse per sempre.

A tale sciagura si andò ad aggiungere la perdita di tutte le centinaia di foto scattate durante le operazioni di prosciugamento, poiché una bomba colpì il locale dove erano conservate, a Genzano: rimasero soltanto quelle già pubblicate.

La storia dell’incendio è una delle pagine più tristi della conservazione dei beni culturali italiani della Seconda Guerra Mondiale e dimostra bene il dramma della guerra e dei soldati in fuga dai nostri territori, incalzati dagli Alleati. Una commissione appositamente creata giunse alla conclusione che con ogni verosimiglianza l’incendio che distrusse le due navi fu causato da un atto di volontà da parte dei soldati germanici, anche se il comando tedesco, ovviamente, smentì tale conclusione.

Nel 2020 il Comune di Nemi ha deciso di chiedere alla Germania un risarcimento perché “quel danno irreparabile di un bene archeologico non fu il risultato di una imprevedibile azione bellica, ma un consapevole atto di sfregio”. La compensazione economica (peraltro difficile da quantificare, dato l’inestimabile valore storico di ciò che è andato distrutto) però non è l’unico obiettivo: con questa azione si richiede piuttosto alla Repubblica Federale Tedesca una collaborazione per ricostruire ciò che emerse dalle due navi, mediante l’utilizzo delle ultime tecnologie e facendo uso dell’incredibile mole di dati raccolti nel corso dei pochi anni in cui le navi furono esposte al Museo.

Vedremo come andrà questa faccenda. Attualmente al Museo sono esposti pochissimi oggetti che si sono salvati dall’incendio e l’enorme spazio vuoto che oggi accoglie il visitatore sembra essere una silenziosa lapide posta a segnacolo del luogo in cui la leggenda divenne realtà, e la realtà, mito.

Ricostruzione delle due navi.

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