Home Rubrica LA STELE DI ROSETTA L’ARMATA PERDUTA DI CAMBISE.

L’ARMATA PERDUTA DI CAMBISE.

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Ogni scomparsa desta un misto di curiosità, ansia, sgomento. Ma quando scompare un intero convoglio armato, allora tutto si avvolge di mistero, alimentando le congetture più fantasiose ed inquietanti. Ci si chiede come sia possibile che un enorme gruppo di uomini addestrati e organizzati possa cadere vittima di eventi che sfiorano l’incredibile e scomparire nel nulla. Eppure è accaduto più volte nella storia. Oggi vogliamo raccontare una di quelle volte, la vicenda drammatica di uomini che furono inghiottiti dal deserto egiziano più di 2500 anni fa a causa della follia di conquista di un re persiano: Cambise.

Egitto, 524 a.C. Il Re dei Re invia un esercito di 50.000 uomini all’Oasi di Siwa per conquistarla e distruggerla. Difesa da una agguerrita guarnigione egiziana, l’oasi rappresentava l’ultimo baluardo che impediva a Cambise la totale conquista della Terra dei Faraoni. Era una terra molto ricca perché caposaldo del commercio carovaniero tra l’Africa Nera e il Mediterraneo, nonché di quello costiero est-ovest. Per di più era sede dell’importante Tempio del dio Ammon e dell’oracolo famoso in tutto il Mediterraneo, tanto che in seguito venne consultato anche da Alessandro Magno (come abbiamo già raccontato in un precedente articolo)

Ma prima di seguire il cammino dell’armata, cerchiamo di comprendere come si è arrivati a questo episodio. Per prima cosa chi era Cambise? Figlio di Ciro il Grande, il giovane Kambugya alla morte del padre era Re della Babilonia e aveva appreso le arti del governo a fianco del satrapo Gubaru-Gaubaruba. Ma anziché proseguire la lungimirante opera del suo predecessore, ossia amalgamare tutti i popoli dell’Asia centrale, ritenne più opportuno costruirsi un proprio prestigio personale rispolverando un vecchio progetto di Ciro: la conquista dell’Egitto. Il suo unico atto di politica interna fu quello di far assassinare a Susa il fratello minore, Bardigya, nel timore che potesse soffiargli il potere. Fu un esordio degno di un sovrano dalla personalità poco encomiabile, almeno stando ad Erodoto il quale però, anziché in Persia attinse le notizie presso i sacerdoti egizi, cui Cambise, subito dopo la conquista, aveva tagliato drasticamente gli introiti. Naturalmente ne scaturisce una bieca figura di blasfemo, autore di una serie di inutili provocazioni ed efferatezze (si dice che tra l’altro avrebbe profanato i sacri templi di Menfi, per cui l’oracolo di Ammon ne avrebbe predetto la morte), un pazzoide interessante più sotto il profilo psichiatrico che storico. Calunnie o verità? Di certo è che Cambise era diverso dal padre e difettava di doti diplomatiche. Tuttavia, la campagna d’Egitto fu preparata con molta cura ed avvedutezza. Qui il faraone Amasi, preoccupato dalle mire di Ciro, aveva assoldato il capitano di ventura Fanete di Alicarnasso il quale, dopo ampi screzi con Amasi, era passato armi e bagagli al soldo di Cambise, spifferandogli tutti i piani delle difese egiziane.

Soldati persiani.

E così nel 525, partendo da Susa col supporto della flotta di Policrate di Samo e dei mercenari di Fanete, Cambise sferra l’attacco. Giunto al Sinai, l’esercito persiano si serve dei cammellieri arabi i quali, aggirando le munitissime fortezze della costa, lo guidano rapidamente a Pelusio, sul delta del Nilo, dove l’esercito egiziano viene letteralmente disintegrato. Strada libera verso Menfi, quindi, che viene conquistata e dove vengono fatti prigionieri il giovane Psammetico III (succeduto ad Amasi) e il matematico Pitagora. Dopo essere stato accusato di aver tramato intrighi, al giovane sovrano fu riservata una terribile morte. Giunto a Tebe, Cambise si autoproclamò faraone. Il suo senso di invincibilità, però, lo portò a commettere diversi errori militari. Uno di questi fu appunto Siwa. Questa località era posta a 1000 km dalle città della Valle del Nilo, in pieno deserto occidentale, presso il confine con l’odierna Libia. L’oasi, tuttora ricca d’acqua e di palmeti da datteri, forniva cibo ed acqua sufficienti per una prolungata resistenza in caso d’assedio.

La logica avrebbe imposto di muovere da Menfi lungo il Nilo, con terreno pianeggiante, acqua e cibo e ombra a portata di mano. Tuttavia l’esercito persiano era concentrato a Tebe e, per fare in fretta, Cambise decise di farlo partire da qui, pensando di cogliere in tal modo di sorpresa la guarnigione egiziana che certo non si sarebbe aspettata un attacco da sud ma un attacco frontale lungo la comoda rotta che costeggiava il Mediterraneo.

Ecco quindi che un’armata di 50.000 uomini parte da Tebe nell’inverno del 525 e si inoltra in pieno deserto e in uno dei luoghi più aridi del pianeta per raggiungere un obiettivo distante 880 Km! Fu un errore fatale: in questo periodo spira il Khamsin un vento che per 50 giorni scatena terribili tempeste di sabbia capaci di modificare completamente la geografia dei luoghi. Dopo 8 giorni di cammino e 180 km percorsi, l’armata raggiunse l’oasi di Kharga per riposare. Da qui i comandanti, non si sa per quale oscuro motivo, si spinsero ad ovest verso le ultime propaggini rocciose dell’altopiano del Gilf Kebir e dell’oceano di dune del Grande Mare di Sabbia, nel pieno del più inospitale dei deserti che avrebbe dovuto essere attraversato integralmente da sud a nord, commettendo l’ultimo tragico errore. A Kharga cessano comunque le informazioni certe. Erodoto scrive: “Dopo che i Persiani ebbero iniziata la marcia attraverso il deserto (…), mentre stavano consumando il rancio di mezzodì cominciò a soffiare dal sud un vento insolitamente impetuoso che, trasportando cumuli di sabbia, li seppellì tutti quanti e in tal modo essi scomparvero”. Una fine terribile e orripilante. Possiamo immaginare che durante la tempesta di sabbia, la mancata visibilità annebbiò le menti, mentre la polvere rendeva ciechi e soffocava la gola. Uomini ed animali caddero uno dopo l’altro, stroncati da sincopi cardiocircolatorie ed insufficienza renale. Quando il Khamsin cessò, una spessa coltre di sabbia ricopriva il luogo della tragedia, cancellando ogni traccia della grande armata…

Da allora, in molti si sono avventurati lungo il probabile percorso dell’armata cercando di individuarne i resti, ma senza significativi risultati. Solamente nel 2009 due archeologi italiani, Angelo e Alfredo Castiglioni, hanno affermato di aver trovato alcuni reperti, come armi in bronzo, centinaia di ossa, anfore e braccialetti, orecchini e un morso per cavallo, in un luogo piuttosto vicino a Siwa e di epoca achemenide. Nel 2014 l’egittologo Olaf Kaper ha avanzato una nuova teoria, sostenendo che l’esercito non sia scomparso sotto la sabbia ma sconfitto in battaglia. Obiettivo della spedizione non sarebbe stata infatti l’oasi di Siwa ma quella di Al-Dakhla, dove erano radunate le truppe del principe locale e futuro faraone Petubastis III. Quest’ultimo avrebbe sconfitto l’armata inviata da Cambise, come testimonierebbe un’iscrizione nei pressi dell’oasi, per partire poi alla riconquista dell’Egitto.

Alcuni reperti attribuiti all’armata perduta di Cambise.

E Cambise? Inviso dagli Egizi per la sua empietà e con le truppe ormai ridotte, decise di far ritorno a Susa, ma non ci arrivò mai. In Siria si avverò la profezia dell’oracolo di Ammon: morì improvvisamente per una cancrena alla gamba causata dalla ferita della sua spada che uscì dal fodero rotto mentre smontava da cavallo.

Qualunque sia stata la sorte della sua armata, la vicenda enigmatica non manca ancora oggi di affascinare.

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