Il concetto di proprietà, inteso nel senso assunto nell’ambito del diritto, definisce un tipo di relazione che un soggetto giuridico ha con un bene.
Più precisamente il nostro ordinamento definisce nell’art. 810 del codice civile i “beni” definendoli come le cose che possono formare oggetto di diritti. Nell’ambito dei beni, l’art. 812 c.c. definisce i beni cosiddetti “immobili “come quelle cose che sono naturalmente o artificialmente incorporate al suolo ovvero, quando galleggianti, assicurati saldamente alla riva o all’alveo e destinati ad esserlo permanentemente per la loro utilizzazione. Sono considerati mobili tutti gli altri beni.

Definiti i beni, il codice civile nel titolo II “della proprietà” non definisce direttamente il concetto di proprietà, ma enuncia il contenuto del diritto. L’art. 832 del codice civile relativamente al contenuto del diritto dispone che ”il proprietario ha diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo , entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.
Relativamente alla proprietà, la Carta Costituzionale riconosce il diritto disponendo nell’articolo 42 che “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. … omissis…”.
Da queste prime indicazioni ci rendiamo conto che intorno al diritto di proprietà ruotano la gran parte dei rapporti economici e giuridici dello Stato, e che la proprietà stessa costituisce il binario principale di percorrenza delle relazioni e dei rapporti tra i soggetti giuridici di ogni contesto sociale.
Tuttavia, come accennato, il concetto di proprietà ha assunto nel tempo ed assume ancora oggi una serie di significati a seconda del contesto al quale esso venga riferito. Per completezza della nostra riflessione è necessario fare un passo indietro per capire l’attuale disciplina ed interrogarsi sui contenuti del diritto di proprietà oggi e sulle sue prospettive future.
E’ tuttavia necessaria una premessa proprio sul concetto di proprietà: come è stato opportunamente detto, il termine rappresenta, per lo storico, un artifizio verbale per indicare la soluzione storica che un ordinamento dà al problema del legame giuridico più intenso fra un soggetto e un bene. Inoltre, stante la varietà degli ordinamenti e dei contenuti storici e culturali, è necessario restringere il campo alla realtà che più ci riguarda da vicino, intendendo questa riflessione evidenziare la direzione assunta dal concetto di proprietà per valutarne l’impatto sulla nostra vita.
Dobbiamo, infatti, tener presente che il concetto di proprietà è principalmente un concetto antropologico e sociale, prima che giuridico, riguardando il rapporto dell’uomo con quelli che possiamo definire “i beni” e contestualizzando questa relazione nell’ambito delle relazioni sociali di convivenza tra gli uomini. In questo contesto antropologico e sociale, il concetto giuridico di proprietà assume le sue connotazioni dettate dalle scelte politiche, istituzionali e amministrative effettuate nell’esercizio del potere normativo.
Lungi da noi effettuare una trattazione storica, tecnica o sistematica della proprietà, ci proponiamo invece di accennare qualche tratto in via del tutto generale, della realtà a noi più vicina, che ci consenta di percepire la grande trasformazione in atto di tale istituto, e conseguentemente l’impatto sociale ed antropologico che tale trasformazione è destinata a suscitare.
Alcuni cenni storici dell’istituto ci aiuteranno a meglio contestualizzare la nostra riflessione.
Breve excursus sul concetto di proprietà dall’antichità fino alla rivoluzione francese
Il concetto di proprietà esprime una forma di relazione tra un soggetto ed un determinato bene.
Tale forma di relazione richiede un confronto esterno: non basta utilizzare o possedere un determinato bene, occorre che l’utilizzo o il possesso siano riconosciuti dagli altri come il legittimo esercizio di un potere con caratteristiche di unicità e opponibilità verso chiunque.
Nel concetto di proprietà viene operata una piena fusione e compenetrazione tra la situazione di fatto e quella di diritto, tale per cui chi dispone della proprietà esercita la propria signoria sul bene che ne forma oggetto tale da definire nei contenuti un diritto idoneo ad escludere ogni concorrente diritto altrui, uno ius excludendi alios.
All’origine della storia umana, il potere esercitato dal proprietario ha natura assoluta e spesso discende direttamente da un’origine divina; le forme di teocrazia legittimano il monarca o il faraone di turno concedendo per volontà divina un potere di signoria e di dominio terreno su cose e persone. I beni che costituiscono il “regno” includono elementi naturali, animali e umani e costituiscono il campo di azione dell’esplicitazione della volontà sovrana, a propria volta modello discendente della volontà divina.
Occorre evidenziare che la primigenia concezione della proprietà è legata ad una realtà principalmente di carattere agrario, in cui i territori, gli animali, le risorse naturali ed i mezzi per coltivare ed amministrare costituivano principalmente i contenuti del diritto.
Soltanto successivamente l’attività commerciale e di scambio ha assunto caratteristiche tali da affiancare i contenuti del diritto.
E’ bene altresì evidenziare che, da un punto di vista sociale ed antropologico, il punto di partenza era l’uomo, l’individuo e la sua relazione univoca con i beni oggetto del diritto.
Nella proprietà l’animus del soggetto di fondeva con la sostanza dell’oggetto o del bene, che in definitiva ne diventava un’estensione fisica.
Monarchie assolute, tirannie e oligarchie definivano sempre una relazione tra l’uomo ed i beni, e definivano la relazione tra gli uomini sulla base dell’estensione riconosciuta dei loro diritti.
Nella civiltà greca, caratterizzata dalle città-stato delle poleis in cui il potere era esercitato da cittadini liberi che costituivano gli abitanti della città, la proprietà non era più riferibile alla signoria di un singolo soggetto, ma alle varie classi dei cittadini. La proprietà definiva anche il ruolo politico e sociale degli individui e delle famiglie all’interno della struttura cittadina, determinando anche la loro capacità di partecipare ed incidere nelle decisioni.

Le prime speculazioni filosofiche del mondo greco si erano concentrate sulla funzione e sui contenuti della proprietà. Relativamente alla funzione emergevano le considerazioni sulla funzione pubblica e sociale della proprietà, piuttosto che sulla funzione di garanzia dei beni privati.
Per Platone la stabilità sociale e la giustizia non potevano prescindere da una proprietà comune dei beni. Soltanto la proprietà comune dei beni era in grado di eliminare i conflitti e le disuguaglianze che derivavano dalla competizione e dalle rivalità.
Per Aristotele, invece, la visione è opposta; proprio la prospettiva di avere beni in comune alimentava i conflitti tra le persone, per cui una società giusta ed equilibrata doveva essere basata sulla proprietà privata. Secondo Aristotele avere i beni in comune avrebbe potuto portare all’insoddisfazione dei cittadini, nel caso in cui il loro numero fosse aumentato rendendo le risorse insufficienti. Invece la proprietà privata avrebbe garantito la produzione delle risorse sufficienti e necessarie a sopperire alle necessità dello Stato, garantendone la protezione e la difesa.
Nell’antica Roma il diritto di proprietà, nei tempi arcaici, rispondeva a tre diversi tipi di situazioni giuridiche, delineate a seconda del contenuto economico e nella protezione nei confronti dei terzi: la proprietà civile o quiritaria, la proprietà provinciale e la proprietà pretoria o bonitaria.

Nella Roma arcaica la proprietà fondiaria non poteva appartenere ai singoli, ma soltanto al monarca oppure ai cives di una città. Solo in tempi successivi viene riconosciuta la proprietà dell’appezzamento assegnato, come succedeva al termine delle campagne militari con le opere di misurazione e frazionamento (cosiddetta centuriazione).
Occorre anche ricordare che per i romani l’agricoltura non era soltanto una necessità, ma era soprattutto uno stile di vita, considerato tra le migliori occupazioni dell’uomo libero (Cicerone).

La proprietà era tuttavia riconosciuta in ambito urbano. Soltanto in epoca successiva, con l’introduzione della coltivazione intensiva affidata alle famiglie plebee, emerge l’esigenza di un’assegnazione stabile della proprietà del terreno.
Nasce così la distinzione tra l’ager divisus et adsignatus da una parte, e l’ager publicus dall’altra che resta oggetto di semplice possesso e non di assegnazione in proprietà.
Il dominium era riservato allo Stato (diritto eminente), ed a testimonianza di ciò l’assegnatario era tenuto al pagamento di un’imposta detta stipendium nelle provincie senatorie e tributum nelle imperiali.
Il diritto concesso aveva il contenuto dell’habere possidere uti frui licere; a tutela di questo diritto era comunque estesa la rei vindicatio, ossia la possibilità di ottenere una tutela giuridica sul bene pari a quella concessa al legittimo proprietario.
Se nel nostro attuale ordinamento il diritto di proprietà definisce il rapporto di un soggetto giuridico con i beni, intesi come cose immobili o mobili, nel diritto romano nei beni soggetti al regime giuridico della proprietà rientravano anche le persone. I beni venivano definiti dal regime giuridico del loro trasferimento: abbiamo così, in età tardo repubblicana ed imperiale, le res mancipi e le res nec mancipi. Come definite da Gaio, le res mancipi potevano essere acquistate in proprietà con un negozio solenne rappresentato dalla mancipatio o dalla in iure cessio; le res nec mancipi venivano acquistate o trasferite con la traditio.
La mancipatio veniva utilizzata anche per il trasferimento della proprietà degli schiavi ma anche del filius che poteva essere trasferito ad un altro pater familias ed assoggettato a lui.

Il concetto di proprietà ha acquisito contenuti e significati diversi nelle epoche successive alla caduta dell’impero romano, e caratterizzate dalle monarchie e dai principati e dalle signorie locali.
Al concetto di dominium, che esprimeva un rapporto verticistico che procede dal soggetto (il dominus) al bene che costituisce il contenuto della proprietà, nel periodo medievale sono le situazioni di fatto ed i contenuti economici a definire il rapporto di proprietà: dal rapporto con il bene si costruisce il diritto. Si passa dal dominio puro e semplice, nella sua unitarietà, all’utile dominio.
La legittimazione divina, una volta appannaggio dei re e degli imperatori, è disgiunta dal potere monarchico ed imperiale ed è amministrata, con il propagarsi del cristianesimo, dal vicario di Dio.

Il Papa dispone dispone di questa legittimazione divina ed ha il potere di legittimare nel mondo sensibile la signoria sui beni, sugli uomini e sulle terre.
Sono però questi frazionamenti di poteri a caratterizzare i rapporti con la proprietà; principati, ducati, contee definiscono il contenuto del diritto sui beni, diritto comunque che non è più discendente dal divino, ma soltanto in alcuni casi legittimato nel suo affidamento dall’autorità sovrana e dall’autorità divina.
Il concetto di dominio utile propone una concezione della proprietà che parte dalle cose: il soggetto, nella sua unicità, ha bisogno di un dominium unitario ed inscindibile, secondo un modello individualistico; la cosa, nella sua complessità strutturale formata da substantia e da utilitas ha necessità di diversificazioni proprietarie, impone un approccio antindividualistico.
Nella concezione del dominium si fonde corpo e spirito, essenza (animus) e sostanza; nell’utile dominio è la sostanza delle cose, è la concretezza dei rapporti, la traduzione di una mentalità possessoria a dare contenuto al concetto di proprietà.

Hyacinthe Rigaud, Ritratto di Luigi XIV in costume dell’incoronazione. Olio su tela. Parigi, Museo del Louvre.
L’organizzazione politica e sociale risponde allo schema della monarchia classica, in cui il sovrano rappresenta lo Stato e dispone dei beni secondo la propria volontà (ricordiamo il Re Luigi XIV, che identificava se stesso con lo Stato), dettando a propria volta le regole e la disciplina dei “beni privati” secondo diritti derivati comunque dal potere sovrano del monarca. La proprietà in senso assoluto è riconducibile al Re, ed ogni diritto sui beni da parte dei privati costituisce una concessione di potere-diritto sul bene da parte del Re.
In questi termini la gestione della proprietà, intesa come bene comune appartenente allo Stato, viene effettuata dal Sovrano che ne assume la responsabilità politica e governativa; la gestione dei beni privati viene affidata dal Sovrano ai singoli che a lui ne rispondono in quanto il contenuto del loro potere è sottoposto al riconoscimento di un’autorità superiore.
L’articolazione del potere in stratificazioni di livello inferiore e locale, risponde a criteri gerarchici di carattere verticistico, che vedono in cima alla piramide l’autorità sovrana.
Il verticismo della monarchia sarebbe stato interrotto inizialmente in Inghilterra con l’introduzione della monarchia costituzionale in seguito alla Gloriosa rivoluzione del 1688 e del Bill of Rights del 1689 con l’insediamento sul trono d’Inghilterra di Guglielmo III e seguita dal Claim of Right Act scozzese sempre del 1689.
La realtà politica ed istituzionale continentale sarà successivamente sconvolta dall’arrivo della rivoluzione francese che assumerà delle norme di principio da porre alla base di ogni sistema politico ed istituzionale, e con l’adozione di una Carta fondamentale dei diritti alla quale anche il potere assoluto si dovrà adeguare.
Dalla rivoluzione francese agli stati moderni: una nuova prospettiva
Con la rivoluzione francese il diritto di proprietà assumeva nuove connotazioni. Il movimento rivoluzionario accoglieva i principi elaborati dall’illuminismo giuridico di Montesquieu, Voltaire e Rousseau e proponeva un sistema giuridico e normativo basato su concezioni di giusnaturalismo che accogliessero i principi di libertà, fraternità e uguaglianza. La proprietà veniva riconosciuta come un diritto naturale dell’individuo, diritto imprescrittibile ed inviolabile. Il diritto di proprietà veniva riconosciuto nella costituzione come diritto fondamentale dell’individuo, proclamando l’abolizione del diritto feudale e di ogni tipo di immunità e privilegio connesso allo stesso, riconoscendo anche il principio di uguaglianza in materia tributaria.

L’art. 17 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 prevedeva che “La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga e sotto condizione di una giusta e preventiva indennità”.
Ma ancor più rilevante è il fatto che dalla rivoluzione francese si delineasse il particolare significato la distinzione tra proprietà privata e proprietà pubblica, definendo i confini tra quella che allora veniva considerata la libertà individuale come diritto inviolabile dell’individuo e l’interesse pubblico come superiore interesse dello Stato-nazione e della collettività.
Da questa ripartizione, il concetto di proprietà pubblica viene a coniugarsi con le politiche amministrative dello Stato, non più oggetto di personalismi, ma orientato dai principi costituzionali.
La proprietà privata veniva ad assumere un indirizzo diverso ed una nuova connotazione.
Nel coniugare il diritto alla proprietà privata come diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, strettamente connesso al concetto di libertà, la strada verso cui si è orientata la proprietà privata tende a distanziarsi progressivamente dal concetto di proprietà pubblica, rendendo esponenzialmente divergenti le finalità perseguite dai due modelli.
Le istanze delle forze conservatrici avevano da un lato riportato il concetto di proprietà a quello di esercizio del dominium coniugando di nuovo l’animus con la cosa oggetto del diritto; tuttavia una diversa sfumatura dei contenuti e un diverso e frammentato contesto venivano a definire una molteplicità di diritti reali che coesistevano con la proprietà, tale per cui nel diritto di proprietà venivano determinati, nella disciplina codicistica adottata, poteri specifici, come vedremo più avanti.
Nuove istanze si affacciavano a dare contenuti al diritto di proprietà privata. La rivoluzione industriale, e le emergenti teorie di politica economica, avevano introdotto nuove prospettive di valutazione del diritto di proprietà; la proprietà privata e l’iniziativa dei privati era entrata a far parte strutturale del sistema economico, della crescita degli stati e della distribuzione delle ricchezze.
A partire da Adam Smith, considerato il fondatore dell’economia politica con il suo saggio La ricchezza delle nazioni, l’iniziativa privata del libero mercato funzionava come mezzo di distribuzione della ricchezza e della crescita economica. Partendo dalla distinzione tra le merci ed i mezzi di produzione, da un lato, e la capacità lavorativa dall’altro, l’iniziativa privata era in grado di combinare i fattori di produzione e di scambio organizzandoli nel mercato.
Nel pensiero di Pierre Joseph Proudhon e nella connotazione del socialismo utopistico, la distinzione tra proprietà, ricchezza e forza lavoro conferiva un’ulteriore connotazione al concetto di proprietà; la proprietà è un furto, come sostenuto dallo stesso Proudhon, in quanto il salario ricevuto dagli operai non corrispondeva al valore del lavoro dagli stessi prestato ed al valore della ricchezza prodotta, valore che restava ad esclusivo beneficio del proprietario dell’impresa.
Per Marx la proprietà privata costituiva il principio di ogni disuguaglianza e avrebbe dovuto essere abolita. La disuguaglianza sussisteva tra la borghesia che possedeva i mezzi di produzione, ed il proletariato che possedeva la forza lavoro.
Tratto comune delle teorie di economia politica era la distinzione tra i beni, i mezzi di produzione e la forza lavoro ed i processi necessari per trasformarli e renderli oggetto di scambio sul mercato.
Le nuove teorie economiche liberiste tendevano, quindi, a tirare il concetto di proprietà privata dalla parte della libertà assoluta, dell’individualismo e della libera iniziativa economica (liberalismo) detta anche economia di mercato, mentre le dottrine del socialismo tendevano a proporre un modello sociale ed economico finalizzato a ridurre le disuguaglianze, proponendo l’abolizione delle classi sociali, la soppressione della proprietà privata e dei mezzi di produzione e di scambio.
L’introduzione della proprietà privata nello Stato italiano

Con la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861, l’Italia unita adottò la propria Carta Costituzionale conosciuta come lo Statuto albertino, definito dallo stesso Carlo Alberto “legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia”. Lo Statuto, proclamato nella data del 4 marzo 1848 nel Regno di Sardegna, si ispirava alla Carta francese del 1814 ed alle sue successive evoluzioni, e concludeva un percorso di riforma dello stato e delle istituzioni che avrebbe dovuto evitare di consegnare lo Stato alle formazioni democratiche e rivoluzionarie, conservando una monarchia mitigata nel proprio assolutismo.
L’art. 29 dello Statuto albertino prevedeva che “Tutte le proprietà senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia, quando l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto od in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.”.

Un diritto, dunque, assoluto, recepito anche nella normativa codicistica interna.
Il Code Napoleon adottato in Italia sul modello francese, fu promulgato per la prima volta il 20 marzo 1804 in Piemonte e, successivamente, adottato nelle altre province e dominazioni presenti in Italia. Anche dopo la caduta di Napoleone il codice ha resistito alle spinte riformiste sia dei conservatori che dei rivoluzionari, avendo manifestato una fusione dotata di equilibrio tra i principi della tradizione giuridica e le istanze di libertà ed eguaglianze espresse dalla rivoluzione. L’Art. 544 del Code Civil prevedeva che “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso proibito dalle leggi e dai regolamenti”; articolo, questo, ripreso e formulato nel codice civile del Regno d’Italia che nell’art. 436 ne riprende integralmente il testo.
Arriviamo così ai giorni nostri, alla Costituzione della Repubblica Italiana nell’enunciazione dell’art. 42 ed al codice civile nell’attuale articolo 832 che enuncia il contenuto de diritto di proprietà.

Ci troviamo oggi in un contesto in cui, secondo le considerazioni formulate, la concezione della proprietà da una iniziale estensione della personalità individualistica costituita da un diritto reale ed assoluto, inviolabile ed attinente alla stessa essenza dell’uomo, viene invece eroso dall’interno da una serie di fattori normativi che tendono a svuotarne i contenuti, e dall’esterno dall’esercizio di poteri eterogenei che tendono a limitarne la portata.
La questione appare particolarmente delicata, in quanto il riconoscimento del diritto di proprietà nell’ordinamento è strettamente connesso al ruolo dell’individuo nel tessuto sociale e giuridico.
La proprietà definisce in qualche modo l’uomo ed il suo ruolo nella società, e definisce spesso gli obiettivi di realizzazione degli individui, assicurando la tenuta di un determinato ordine sociale ed economico.
Vedremo nella prossima parte quali sono le tendenze evolutive del diritto di proprietà e quale sarà il ruolo ad essa assegnato nel futuro che si va delineando.