Home Cultura I segreti dei flauti di Pompei. La musica dell’antica Roma.

I segreti dei flauti di Pompei. La musica dell’antica Roma.

Il laboratorio Arvedi ha analizzato gli strumenti romani nell’ambito del simposio internazionale del Moisa.

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Alcuni degli strumenti ricostruiti secondo le indicazioni filologiche e prendendo spunto dai reperti.

La musica che ascoltavano gli antichi romani, duemila anni fa, ha risuonato nel cortile rinascimentale di palazzo Raimondi nell’ambito del 14° convegno di MOISA, The International Society for the Music of Greek and Roman Antiquity and Its Cultural Heritage che aveva come tema la tecnologia applicata alla musica greco-romana. La tre giorni di sessioni di studio e concerti ha portato esperti da tutta Europa, dagli Stati Uniti e dal Brasile. La particolarità del simposio è che non ci si è limitati a mettere a confronto studiosi internazionali, ma si sono anche offerti momenti performativi, concerti di musica antica, eseguiti dal coro di musicologia e da professori musicisti, restituendo le atmosfere musicali che dovevano caratterizzare i banchetti e le occasioni festive dell’antica Roma e della ricca Pompei.

«Tutto è nato da un accordo che il Dipartimento di Musicologia e Beni culturali ha siglato con il museo archeologico di Napoli per lo studio degli strumenti romani trovati a Pompei, studio da condurre dal punto di vista storico organologico, ma anche analizzando i materiali e gli strumenti stessi — spiega Eleonora Rocconi, docente di Storia delle teorie musicali nel mondo antico —. Al laboratorio Arvedi di diagnostica dei materiali è spettato il compito di analizzare alcune tibie, una sorta di flauti, per capirne la struttura e, in base all’analisi dei materiali, ipotizzare il modo migliore per conservarli. Ciò ha permesso di coinvolgere le diverse anime del nostro Dipartimento: dagli storici della musica ai tecnici di restauro e naturalmente ai colleghi del laboratorio di diagnostica».

Il responsabile del materiale di Diagnostica dei materiali presso il Museo del Violino, Marco Malagodi, curatore insieme con Rocconi dell’iniziativa, spiega: «Il nostro compito, come laboratorio di diagnostica dei materiali, è stato quello di analizzare come sono costruiti i flauti, chiamati appunto tibie perché con una parte interna di osso. Abbiamo provveduto a fare tutte le analisi non invasive del caso. Non siamo ancora riusciti a capire di quale origine animale possano essere i materiali ossei. La nostra indagine è finalizzata non solo a definire le caratteristiche materiche degli strumenti, ma in base ai dati raccolti intersecarci con i tecnici del restauro per capire quale possa essere il modo migliore per conservare questi strumenti di duemila anni fa». Ricostruite secondo un accurato studio delle originali cetre e tibie, hanno risuonato nel cortile di palazzo Raimondi, dando voce ad antichi spartiti giunti a noi incisi su pietra o scritti su papiro. Testimoni non più muti di melodie e canti di oltre due millenni fa. 

Nicola Arrigoni

LAPROVINCIACR.IT

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