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PITEA DI MARSIGLIA, E LA MITICA THULE.

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Il nome di Thule è di quelli così fortemente evocativi da far pensare che il luogo appartenga alla fantasia delle leggende e saghe nordiche, come il Walhalla. Un nome famoso, dalla fortuna non ancora esaurita, tanto che nel 1910 Knud Rasmussen battezza Thule una località della Groenlandia e nel 1950 così viene chiamata la più settentrionale tra le basi artiche dell’aviazione statunitense. Ma il luogo esiste veramente?

Alla fine del IV secolo a.C. le acque settentrionali del grande oceano furono solcate dalla prora di colui che oggi è considerato il più grande navigatore dell’età antica: il greco Pitea di Marsiglia, colonia focese in Occidente, secolare concorrente di Cartagine. Fu un grande capitano, un geniale scienziato, un acuto osservatore della natura e degli uomini, che non si fermava alla superficie delle cose ma cercava di penetrarne l’essenza e le cause. Osservò con attenzione il fenomeno delle maree e ne pose il susseguirsi in rapporto con le fasi lunari. Calcolò con estrema precisione la latitudine della sua patria: i 14’ di errore che si attribuiscono alla sua misura sembrano dipendere soltanto dall’aver preso per segnacolo il bordo del disco solare e non il centro. Non sembra fosse ricco. Agiato, forse, ma non certo in condizioni tali da poter armare delle navi a proprie spese. Riuscì quindi, non si sa come, a convincere i mercanti suoi concittadini ad investire nella sua più spericolata ed ambiziosa impresa marinara: raggiungere l’Ultima Thule.

Non sappiamo quando Pitea salpò da Marsiglia, tranne che il viaggio si svolse nell’ultima parte del IV secolo a.C. Superato lo Stretto di Gibilterra, all’epoca gravato dal blocco navale cartaginese, fece vela verso nord costeggiando la penisola iberica fino al Capo Ortegal per muovere quindi verso l’isola di Oukisama, al largo dell’estrema punta bretone del territorio di Finistère, il cui nome, insieme col capo Finisterre galiziano e il Lands End della Cornovaglia, ci ricorda come per secoli là terminassero l’Europa e il mondo per gli uomini del nostro continente. Seguì il profondo arco del Golfo di Biscaglia e da Ouessant, antichissimo punto di scambio e contatto tra mercanti, marinai, produttori di stagno, conosciuta già dagli uomini della Tartesso iberica, salpò direttamente verso nord per raggiungere le isole Scilly e il capo Belerion, cioè le zone stannifere della Cornovaglia. Questa ricognizione era forse tra gli scopi del suo viaggio, almeno tra quelli che probabilmente convinsero i mercanti marsigliesi a finanziare la spedizione, perché Pitea riportò preziose notizie anche sui metodi di estrazione e lavorazione del minerale. Lasciata la Cornovaglia, la spedizione circumnavigò completamente la Britannia, riconoscendone per la prima volta oltre ogni dubbio il carattere insulare e la forma triangolare, segnata dai tre Capi Belerion, Cantion e Orkas.

Durante la circumnavigazione, Pitea e i suoi marinai vivono la loro più esaltante avventura, la cavalcata marina verso l’Ultima Thule, isola a sei giorni di mare dalla Britannia, a nord oltre l’estrema punta di Capo Orkas. Molte, forse troppe le ipotesi su questa lontana terra: le Isole Shetland, l’Islanda, la Groenlandia, la Norvegia. Due escono subito dalla competizione: le Shetland, nonostante i virtuosismi storico-geografici di alcuni interpreti, sono troppo vicine e modeste; la Groenlandia è troppo lontana e fuori rotta. Restano la Norvegia e l’Islanda, il cui nome di Thule fu attribuito frequentemente fin dal Medioevo da un Dicuil nel IX secolo e da un Adamo di Brema nell’XI. L’ipotesi Norvegia fa perno soprattutto su alcune particolarità della flora e della fauna che riporterebbero alla regione del Fiordo di Trondheim. A questa latitudine infatti siamo già sufficientemente a nord per vedere le brevissime notti di poche ore descritte da Pitea, ma non tanto che gli abitanti non possano vivere sfruttando l’allevamento delle api e una stentata agricoltura fondata sull’avena. Per questa economia agricola l’Islanda è troppo fredda. Tuttavia, c’è un particolare che non si può trascurare: tutti i frammenti sono concordi e molto chiari nel collocare Thule a sei giorni di navigazione a settentrione della Britannia, e questo non è certo il caso della costa norvegese. Dobbiamo quindi chiederci se tale riferimento non debba intendersi in senso più strettamente geografico che nautico e che quindi Pitea potrebbe aver inteso precisare che Thule è situata interamente a settentrione della Britannia, cioè che tutta l’isola sia compresa a nord della base di partenza.

Se, invece, accettiamo l’ipotesi Islanda, allora il mare indurito, il mare denso, il mare che ferma le navi, è il mare pullulante di ghiacci delle estreme latitudini, incontrato da Pitea ad un giorno di navigazione oltre Thule. Ma se è giunto in Islanda, come mai non egli non fa cenno dei vulcani? In realtà è possibile che ne abbia parlato, se diamo credito ad un’ardita interpretazione di uno scolio (annotazione) di Apollonio. In esso è riportato che, secondo Pitea, nelle viscere dei vulcani mediterranei il dio Efesto è al lavori per i mortali. Tuttavia ciò non è corretto, perchè nel mondo mitologico mediterraneo Efesto pone le proprie abilità di fabbro al servizio dei mortali soltanto in occasioni eccezionali. Frequentati da fabbri sono invece i vulcani delle mitologie nordiche. Ecco dunque che il racconto di Pitea, che lo ha udito chi lo ha accompagnato in Islanda o da altri forse incontrati durante la permanenza alle alte latitudini, benchè snaturato nella forma dal commentatore mediterraneo che lo ha adattato alle proprie convinzioni mitologiche, potrebbe testimoniare, seppure labilmente, della sua conoscenza dei vulcani islandesi.

Comunque sia, le notizie diventano confuse ed incerte, considerando che esse sono riportate da Strabone, che non crede all’esistenza di Thule. Eppure sembra che Pitea, continuando nel suo viaggio, sia giunto nel Baltico, le cui regioni sono ricche di ambra, un materiale prezioso molto amato dagli antichi. Scopi mercantili intrecciati indissolubilmente a quelli scientifici, quindi.

Da quanto riportato, emerge la figura di un uomo coraggioso, animato da una grande curiosità e capacità marinara. Eppure Pitea ebbe però in età antica quella che si dice una pessima stampa e fu spesso considerato un incredibile contafrottole. Non che tutti gli antichi ne abbiano avuto una cattiva opinione, ma la sua sfortuna fu che gli schierarono contro due tra i più noti letterati dell’epoca antica, entrambi greci come lui, lo storico Polibio e il già citato geografo Strabone a cui paradossalmente dobbiamo la maggior parte delle notizie su Pitea, la cui opera fondamentale Intorno all’Oceano è andata purtroppo perduta. Perché i due si accanirono tanto su di lui? Il geografo francese Roger Dion (1896-1981) ha individuato con una certa acutezza un substrato politico a fondamento delle malevole critiche di Polibio e Strabone. Prima di tutto non dimentichiamo che essi non costituiscono tutta la critica antica, in larga parte benevola: anche Virgilio, che nel primo libro delle Georgiche auspica la conquista della ultima Thule, non la considera certo una terra mitica inventata da un fanfarone. E allora? Polibio e Strabone, greci al servizio di Roma, hanno cercato di rendere – scrive il Dion – un servizio al potere cui, nella loro mentalità, doveva riuscire intollerabile l’esistenza di una terra lontana non raggiunta o raggiungibile dalle armi romane. Augusto intende portare i confini di Roma all’estremo nord, ma non riesce a superare la Manica e la costa batava; quindi Thule non deve esistere, poiché la sua esistenza umilierebbe Roma. Purtroppo per Pitea, i suoi due critici furono tra gli autori dell’antichità più letti nei secoli successivi e così la cattiva fama di mentitore seguì il malcapitato fin quasi ai giorni nostri, trasformando Thule in un mitico paese di favola di un settentrione misterioso ed improbabile.

Rotta seguita da Pitea.

Eppure Pitea scoprì la Britannia definendone la natura insulare; raggiunse la terra più settentrionale mai immaginata per quei tempi; effettuò la ricognizione del Mar Baltico; studiò maree e correnti atlantiche; vita, usi ed economia delle popolazioni incontrate. Il suo viaggio fu più lungo di quello di Colombo e fu opera memorabile benchè, a differenza del navigatore genovese, sia rimasto sempre in vista della terraferma, eccettuati il tragitto tra la Britannia e Thule e il percorso di ritorno da Ouessant a Capo Ortegal. Nonostante Polibio e Strabone, ne ricavò fama già nell’antichità.

Roger Dion ha richiamato l’attenzione su uno degli epigrammi dell’ Antologia Palatina (una raccolta di epigrammi attribuiti ad una cinquantina di poeti greci, compilata a Bisanzio intorno alla metà del X secolo), riferita ad un non meglio identificato Pitea, che però sembrerebbe proprio il nostro: “La morte non ha fatto presa sulla tua fama gloriosa e universale. La tua anima è presente e brilla di tutto lo splendore donatole dal tuo genio, dalla tua scienza, dalla tua ineguagliabile intelligenza. Te la sei meritata raggiungendo persino l’Isola dei Beati, o Pitea“. Così dicono i pochi versi dell’epigramma. Tutti i riferimenti e soprattutto quello all’Isola dei Beati (Thule?) si adattano alla figura del capitano di Marsiglia, cui la damnatio memoriae decretata da parte della tradizione antica non riuscì a togliere quindi interamente la fama che si era meritata.

Pitea di Marsiglia

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