Addio ad Arnaldo Pomodoro, lo scultore che portò la materia nel teatro d’opera (aveva 99 anni).

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Si è spento domenica sera a Milano, all’età di 99 anni, Arnaldo Pomodoro, grande protagonista della scultura italiana del secondo Novecento. Famoso in tutto il mondo per le sue iconiche sfere che si aprono su fratture interne e geometrie meccaniche, Pomodoro è stato anche autore di scenografie per il teatro, compreso quello musicale. In quest’articolo di Roberto Mori, ricordiamo la sua attività di scenografo, un ambito in cui traspose e ridefinì la sua poetica plastica, dando forma a paesaggi arcaici, mitici o futuribili, sempre attraversati da tensione drammatica e senso del frammento.

Scultura e architettura sono state a lungo considerate refrattarie al teatro, in particolare a quello d’opera. La scena pittorica, con la sua bidimensionalità intesa come superficie-fondale, l’ha sempre fatta da padrona. Solo a partire dagli anni Settanta l’apporto degli scultori alla modernizzazione della scenografia diventa più rilevante. In sintonia con la tendenza all’arte monumentale diffusa in Italia e all’estero, i palcoscenici iniziano a essere occupati da grandi, a volte gigantesche, installazioni. Da qui gli imponenti assemblaggi lignei di Mario Ceroli per la Norma scaligera del 1972 o le immense costruzioni di Pietro Consagra per Oedipus Rex di Stravinskij.

Nel 1982, Arnaldo Pomodoro concepisce sorprendenti strutture per la Semiramide di Rossini rappresentata all’Opera di Roma. È il suo debutto nel teatro musicale. Costruzioni dentate e merlate, simili a una potente macchina bellica, si muovono in scena definendo le diverse configurazioni drammaturgiche. L’impianto delinea un paesaggio indeterminato in cui solchi e crepacci esaltano la poetica del frammento. Pezzi di scena si staccano via via che il nodo edipico tra Semiramide e Arsace si scioglie. Ne emergono scene moderne, nella loro astrazione, e insieme evocative della civiltà assiro-babilonese: una semplicità sontuosa che mira a una stilizzazione arcaica, apparentemente lontana dalla musica di Rossini, già proiettata verso sensibilità romantiche. Ma è proprio la frizione tra musica e struttura scenica – che si ripeterà, ancora più marcatamente, nell’Alceste di Gluck del 1987 – a dare forza allo spettacolo.

Aperto alle più diverse forme d’espressione artistica, Pomodoro trova nel teatro un ambito di conoscenza e sperimentazione. Non si limita a ripetere e ampliare il proprio marchio inconfondibile (la sfera con superficie che s’incrina mostrando fratture in ombra e luce), ma crea nuove prospettive, traccia spazi inediti per l’azione. Il teatro lo induce a ridefinire e persino a reinventare il proprio lavoro: “Mi ha reso più audace nella scultura pubblica – ammette – e forse mi ha dato anche nuove idee nell’ambito della ricerca scultorea”.

In Alceste di Gluck e in Oedipus Rex di Stravinkij, realizzate rispettivamente nel 1987 e 1988 per Genova e Siena, Pomodoro si serve di nuovi materiali e tecnologie per raggiungere effetti scenici di grande efficacia drammatica. Le scene di Alceste presentano una tripla fila di pannelli ravvicinati, incisi da bassorilievi che sembrano ferite: segni sinistri e minacciosi. Meccanismi futuristici si alzano sul fondo del palcoscenico, incorniciando personaggi in costumi ovali e increspati, simili agli “ossi di seppia” da lui scolpiti qualche anno prima. Si potrebbe parlare di una bellezza leonardesca, generata dall’armonia delle macchine, dalla razionalità matematica che governa tanto i moti astrali quanto quelli degli artefatti umani. Allo stesso modo, in Oedipus Rex, i costumi – che evocano insetti o pesci – creano una dimensione arcaica e insieme futuribile. Le scene spaziano da alti pilastri spaccati, che richiamano le celebri colonne di Pomodoro, a grandi stele verticali sulle cui superfici affiorano sfere, cunei e altre forme geometriche: una composizione che rimanda tanto ai circuiti elettrici quanto alla scrittura cuneiforme.

Pomodoro è lo scultore-scenografo che esprime il travaglio drammatico nascosto sotto la superficie, trasformando la terra, nei suoi allestimenti, in un relitto cosmico. Per Teneke, l’opera di Fabio Vacchi andata in scena alla Scala nel 2007, realizza una montagna-scultura dove si ambienta una vicenda di sopraffazione, sfruttamento del lavoro e mafia rurale. L’impianto scenico, irto e scosceso, dà forma a una crosta terrestre violentata dall’invasività umana, ridotta quasi a frammento cosmico. Il rilievo materico richiama le risaie terrazzate ed è composto da elementi mobili che, seguendo l’azione, scompaiono lasciando spazio al fango e alle inondazioni. La macchina scenica suggerisce lo scorrere dell’acqua, l’impressione che questa rompa gli argini e dilaghi. È un paesaggio scabro, povero, metafora di un mondo in cui l’uomo ha perso ogni rapporto armonico con la natura. Da fonte di vita, la terra diventa organismo malato, un immenso animale morente devastato dai parassiti. Il ciclo produttivo, spinto all’estremo dall’avidità, compromette la fertilità, interrompe il flusso della vita, lo svuota di senso, riducendolo a concrezione inerte. In questo contesto desolato, i contadini lottano contro il sopruso, ma sono ormai simili a larve. Se la musica di Vacchi lascia intravedere uno spiraglio di speranza (le percussioni finali insinuano che il sipario non calerà definitivamente sul destino dei personaggi), Pomodoro sembra suggerire che ogni ribellione sia destinata al fallimento, a meno di un cambiamento radicale nel modo di concepire i rapporti umani e con l’ambiente. È la denuncia di un’illusione: quella di un consumo infinito del pianeta attraverso tecniche sempre più aggressive di sfruttamento. E insieme un monito per tutti noi che di questo pianeta siamo responsabili.

Su questa linea si muove anche l’ultimo lavoro di Pomodoro per il teatro d’opera: il dittico Šárka–Cavalleria rusticana, presentato nel 2009 alla Fenice. Pomodoro concepisce due allestimenti di straordinario impatto visivo. L’accostamento di due opere composte negli stessi anni (1887–1890), ma ascrivibili ad ambiti estetici differenti, dà vita a un contrasto scenico fortissimo: chiuso-aperto, buio-luce, spiritualità-passione. Una polarità così potente da diventare il vero motivo d’interesse della produzione veneziana.
Šárka, opera breve e concisa di Leos Janáček, è imperniata sulla leggenda di una vergine guerriera e sul conflitto fra i generi. L’assenza di catarsi e il tono cupo della scrittura musicale vengono tradotti da Pomodoro in un’ambientazione claustrofobica, simile a una grotta o a una miniera di carbone. Tra due imponenti contrafforti materici si collocano due creazioni scultoree: una quercia tentacolare e un bassorilievo istoriato che rappresenta la porta della rocca di Vyšehrad. Il nero dominante è attenuato solo da riflessi argentei e da bagliori rossi che evocano la pira funebre con cui si chiude l’opera.
All’oppressione visiva di Šárka Pomodoro contrappone, in Cavalleria rusticana, l’orizzonte luminoso di un paesaggio bianco e pietroso: una cava o, forse, una salina. Nella solarità mediterranea si accende il conflitto elementare di passioni – amore, gelosia, vendetta – ma emerge anche una religiosità arcaica e intensa. Con un colpo di teatro memorabile, nella scena dell’Inneggiamo un crocifisso nero, nel più tipico stile di Pomodoro, si alza lentamente e sembra emergere dalle viscere della terra. Un’immagine potente ed emozionante, che da sola valeva l’intera produzione.

Roberto Mori

Fonte: connessiallopera.it