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Marco Ciriello – Il Vangelo a benzina – Tigri, madonne, cactus e zulù

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Marco CirielloIQ. 05/06/2013 – Paola Del Zoppo, recensione a Marco Ciriello, Il Vangelo a benzina – Un’indagine del commissario Valenzi, Bompiani, Roma 2012

Marco Ciriello – Il Vangelo a benzina – Tigri, madonne, cactus e zulù

La Domiziana è una strada vollente, di fianco tiene ancora i campi e pure la gente che li zappa, e in mezzo alle macchine che fujono trovi le negre. Madonne pittate che aspettano ai loro Giuseppe sotto oleandri che puzzano come arbremagic scaduti. La compagnia ce la fa la munnezza, a quelle che vanno bene, alle altre ci sta la terra che le macchine aizano, e loro spaparanzate cosce all’aria, assettate sopra i materassi sguarrati o ‘ncoppa ‘e bidoni cappottati, sotto i piedi si annascuano buste di plastica coi nomi dei supermercati di qua attorno, dentro ci stanno i plasmon o i pavesini e l’acqua Tenerella, dentro i tubolari dei cartelli pubblicitari (che mmò ci sta quella faccia di cazzo di Tommaso Cozzolino, candidato all’Europa, isso che manco è mai andato a Milano) loro ci appizzano, come le formiche, i preservativi, e se dove stanno assettate il sole le appiccia, allora araprono un ombrello colorato che certe volte mi parono davvero delle madame, che poi quando passo piano e le guardo in faccia mi fanno le moine, ma io ‘o saccio che si cacano sotto, si mettono appaura che i clienti non le vedono e non se le chiavano e allora quelle stronze si sbracciano.

Il Vangelo a benzina di Marco Ciriello, un giallo che è anche nero, come il manto della tigre che è al centro della copertina e degli eventi, comincia con queste Madonne pittate e continua evocando l’angelo della morte, il buon samaritano, e perché no, la samaritana al pozzo (la malinese, potente e fiera donna di strada cui si rivela la verità come la rivela Gesù quando riceve da bere). E poi il buon ladrone, i servi inutili, il peccatore e il giovane ricco. Tutti i personaggi, dinamicamente inseriti in un parodico dipinto alla Hogarth – l’unico possibile ritratto di quella strada assolutamente reale, popolata di individui solo possibili, ma conosciuti e decifrabili – danno vita a un romanzo di straordinaria chiarezza e intrigante complessità. Capitolo dopo capitolo, parabola dopo parabola e ritratto dopo ritratto, Marco Ciriello dipinge per noi un microcosmo di personaggi ben delineati fin dalla prima comparsa e li cesella con precisione soprattutto grazie ad un sapiente uso del linguaggio.

È una lingua reale che esalta la finzione, quella che tratteggia e rende il suono di ogni movimento di questo romanzo: una sinfonia di voci in cui il motivo più forte, la melodia, la voce narrante primaria, si alterna, mescola e intreccia con nitidezza alle trame di pensieri, sensazioni e voci narranti meno loquaci o, quando si legge del commissario, con una voce che apparentemente è esterna, onnisciente, e quindi con un punto di vista oggettivo. Di per sé la lingua sarebbe una sorta dialetto campano, e lo è, ma senza chiudersi nel regionalismo. Ciriello non concede al lettore un graduale avvicinamento al suo vocabolario e alla sua grammatica come accade ad esempio in Camilleri, in cui la lingua è la lingua specifica di Montalbano, non un siciliano regionale, e come tale penetra nell’immaginario narrativo. La lingua di questo Vangelo, fin dalla prima pagina, è lingua di narrazione e dunque lingua universale, che conduce il lettore in un cosmo che può essere vicinissimo e lontanissimo insieme. Il lettore deve “leggere” una Weltanschauung, non una storia, deve adeguarsi al tempo, al modus del pensiero della voce narrante. Ma al contempo, la scelta linguistica ridicolizza la portata sacrale del racconto, presentando i personaggi già filtrati dal velo ambientale, senza però intaccarne la portata di verità. L’osceno svela i tabù, la violenza estrema si fa parodia della violenza, il sesso perde qualunque connotazione di senso, il razzismo, la bontà, la crudeltà e gli amori sono sublimati in immagini ridicole e spiazzanti e manca la possibilità di risalire all’evento scatenante la catena di eventi. E quando l’ironia si fa più evidente e talvolta sembra sfiorare il grottesco, impregna di consapevolezza umana tutto il narrato, e di una sorta di tenerezza verso i meschini personaggi che popolano il terreno Olimpo della camorra e dell’Italia e forse oltre: gli dei sono miseri esseri, il boss – il Casalese – è volgare e inelegante “un tipo tarchiato, rasato male, con la canottiera sotto la polo e con le nike ai piedi, un Gesù enorme al collo e pure gli occhiali da impiegato, quella figura mediocre, pure spettinata, gli ha fatto rimpiangere di non aver scelto la Russia per il suo lavoro, dove gli raccontano che per i killer gli affari vanno a meraviglia”, pensa il terribile killer Dragoslav – “un nome da assassino”, sì, ma anche da macchietta – ex militare dell’est chiamato appositamente per portare a termine un lavoro impeccabile, una strage perfetta. Strage che perfetta non sarà, cosicché il terribile killer non ci sembra, in fondo, più terribile d’“o’Zulù” che stupra i due fuggiaschi, a loro volta assassini di un terribile e ipocrita senatore della commissione antimafia, produttore di film pornografici colluso con la camorra, e ricercati da o’ Gorilla, addolorato per la perdita della sua amata tigre domestica.

Ma forse Dragoslav il killer non è più terribile neanche del commissario Valenzi, il detective designato, che, in un romanzo giallo di impianto più classico, rappresenterebbe la ratio personificata, o almeno la tensione alla giustizia, mentre qui è un nostalgico fascista malato nel corpo e innamorato del suo cactus a cui ha dato persino un nome, Ciro. Lucidissimo nelle sue analisi sulle persone coinvolte, ma privo di qualunque fiducia nel sistema – anarchico nella sua gestione del lavoro – , amareggiato e orgoglioso della sua presunta cultura e onestà intellettuale, Valenzi è malato di cancro e di rassegnazione. Nella figura di questo detective, definita dalle sue azioni più che dai suoi dichiarati pensieri, trova compimento la decostruzione parodica del romanzo.

Anche in questo, il gioco si svela nell’uso sapiente del linguaggio. Il commissario Valenzi sceglie volontariamente il dialetto, ne fa una questione di orgoglio e di essenzialità: “Giudice, tengo la testa che mi sbatte, non ho dormito, la mattinata l’ho passata alla manifestazione della Nigeria libera e non tengo voglia di pazziare”. “Intanto, mi parli in italiano. So delle sue giornate e so anche del suo stato di salute che il suo orgoglio non le fa menzionare,per questo passo sopra ai suoi comportamenti che non sono degni di rappresentare lo stato in questi posti. Se non ci distinguiamo non vinciamo” “Non si dia pensiero: abbiamo già perso.” “Se non conoscessi il suo valore, nonostante gli errori che pure ha commesso a cominciare dalla sua fede politica, non accetterei simili risposte” “La ringrazio, giudice. Comunque mezz’ora fa volevo solo sapere come hanno acciso a quella merda di Romeo” “Ma come si permette di definire così il senatore? Lo sa che era membro della commissione antimafia e presidente della commissione trasporti?” “E chissà quante altre cose belle, giudice. Però vi dovete arrescetare, altrimenti chissà quanto altro tempo perdiamo. Mi volete dire cortesemente, gentilmente, amorevolmente, come è morto?” Nel cambiare registro e lingua all’interno talvolta anche di una stessa frase, la scrittura di Ciriello illumina i personaggi in un gioco di specchi: lampi repentini di luce fanno risaltare di volta in volta un lineamento, uno scorcio di paesaggio oppure evidenziano un gesto, seguono un movimento dei corpi o dello sguardo, incolpano ed assolvono.

Forse un tratto fondante di tutto il romanzo va ricercato nell’imperfezione del creato, negazione primaria della buona novella (negata in fondo fin dal principio nel titolo ossimorico) e dunque primaria parodia. Il commissario che dovrebbe rimarginare le ferite del reale non può, e non può in partenza. L’imperfetta strage, l’errore o del killer è ciò che di fatto rende possibile la narrazione come in fondo in ogni romanzo giallo è dall’errore dell’assassino che parte lo svelamento. E quindi il racconto intero degli eventi della Domiziana sgorga dalla fenditura nella logica delle azioni. Ma l’errore dell’assassino altro non è che un atto di clemenza, sebbene non dovuto alla grazia del cuore, ma alla noncuranza: “ma una curiosità me la devi levare […] come cazzo ti è venuto in mente di non dare una botta all’atro guaglione che stava a casa d’o Zulù? […] ma tu ossaj che oggi tutti quanti si mettono a scrivere, mietti che questo ci gira la cervella e ci canta a tutti quanti, dove ti devo venire a pigliare poi?”. E qui e a seguire il definitivo rovesciamento. La narrazione è tutta parodia, è irrealtà, è finzione e menzogna, eppure, o meglio, proprio per questo, è valida in sé, e dunque tanto più vera di qualsiasi mitizzazione, categorizzazione, esaltazione buonista. E nel dichiarare il suo debito a Milan Kundera, al termine del libro, Ciriello ricorda indirettamente e inevitabilmente ai suoi lettori che questo atteggiamento ironico, destabilizzante, eversivo, da qualche tempo manca a molti intellettuali italiani, ma soprattutto annuncia al lettore la buona novella: è possibile leggere ancora ottima letteratura che abbia come tema le vite possibili.

Paola Del Zoppo

 

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