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“Che Europa sarà” ISPI-Fondazione Corriere della Sera dibattito sul tema – Europasia informa

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Convegno ISPI-Fondazione Corriere della Sera sul tema “Che Europa sarà”
NON C’E’ ACCORDO TRA NORD E SUD DEL CONTINENTE 

Se la maggioranza degli italiani ritiene l’Unione Europea non madre ma matrigna, una maggioranza ancora più grande vuole restare nell’Eurozona. Segnale evidente di una certa confusione che è bene dipanare alla vigilia delle prossime elezioni per l’Europarlamento, le prime nelle quali 27 Paesi – non è ancora dato sapere quale sarà il destino del Regno Unito – voteranno non per scegliere un partito nazionale, ma il futuro dell’Unione. Si prospetta infatti una risicata maggioranza per i partiti moderati e l’ascesa di gruppi più nazionalisti ed euroscettici in quello che sarà il Parlamento Ue piú frammentato di sempre.

Bene ha fatto quindi l’ISPI, uno dei più autorevoli think-tank europei fondato nel 1934, ad organizzare in collaborazione con Fondazione Corriere della Sera  il ciclo di incontri “Che Europa sarà”: cosa attendersi su euro, migrazioni, lavoro e disuguaglianze, e politica estera? Come si giocherà dopo il voto la partita delle nomine dei vertici Ue? Più in generale, di cosa dovrà occuparsi l’Europa del futuro in un mondo di grandi potenze?
Il primo convegno ha avuto quale tema “L’Euro e l’Europa delle regole”. Ne hanno parlato  Marco Buti, Direttore Generale della DG Affari Economici e Finanziari, Commissione europea in un dialogo con Veronica De Romanis, Professoressa di European Economics, Università LUISS Guido Carli e Giovanni Dosi, Professore di Economia, Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa, moderatore Antonio Villafranca, Co-Head Osservatorio Europa e Global Governance, ISPI.
Le regole europee – dal bail in al fiscal compact  – hanno fatto male o bene all’economia continentale, e in particolare a quella italiana?

Innanzitutto va detto che le ‘regole’ sono arrivate, con colpevole ritardo, soltanto con la Grande Crisi del 2008 importata dagli Stati Uniti, dopo avere sprecato dieci anni di sviluppo durante i quali nessuno ha provveduto – eccezion fatta per la Germania, allora la malata d’Europa, che le riforme le aveva fatte nel 2003 –  e pochi altri Paesi, a mettere grano in solaio per gli inevitabili anni magri (ciclo tipico del capitalismo).  Si è trattato allora di riparare il motore dell’aereo mentre questo era in volo.  Il caso drammatico della Grecia è lì a testimoniarlo, anche se il Paese mediterraneo si era reso responsabile del grande imbroglio presentandosi al consesso europeo con i conti truccati:  meno del 3% di deficit/pil quando era superiore al 15%.

Certo, le regole europee limitano la sovranità dei singoli Stati: ma non è quanto avviene quando si lascia volontariamente la villetta unifamiliare per andare a vivere in condominio dove c’è un regolamento cui tutti devono adattarsi?

Ma è altrettanto vero che il ‘regolamento condominiale’ è lungi dall’essere completato. Per citare, le norme bancarie sono un cantiere aperto dove è stata imposta una sorveglianza europea sulle principali banche, ma non è stata ancora varata una normativa che garantisca chi nelle banche deposita i propri risparmi.

L’ opposizione di fondo, in tema di economia e di vincoli, viene dai Paesi del Nord guidati dalla Germania e investe scelte di ben maggiore calibro: ad esempio, la riluttanza dei Paesi ricchi ad accollarsi i debiti dei Paesi in difficoltà: saremmo anche disposti a farlo, dice il Nord al Sud del continente, ma prima dovete  mettere a posto i vostri conti; se non ci aiutate,   risponde il Sud, non saremo mai in grado di farlo. I fatti sembrano dar ragione a questi ultimi.

C’è un lontano precedente in merito. Agli inizi dell’800 alcuni Stati dei neocostituiti Usa si trovarono sull’orlo del fallimento e molto più di recente la ricca California. In tutti i casi intervenne il governo federale: e ancora oggi gli Stati più ricchi ‘finanziano’ quelli più poveri o in temporanea difficoltà. Un po’ come avviene, nel nostro Paese,  con le Regioni.

Al centro di tutto l’Euro, che nel 2019 compie vent’anni, dal quale dipende l’intera Unione Europea. Dall’Eurozona (19 Paesi) nessuno intende uscire, anche se è una sorta di ‘mostro’: una moneta priva di una istituzione di riferimento, conseguenza dell’illusione che all’unione monetaria sarebbe seguita l’unione politica e fiscale, un governo in grado di tassare, investire, indebitarsi quando necessario. Non è avvenuto. Ed ogni Paese dell’Eurozona fa la politica economica che gli pare, anche se le sue scelte influiscono sui bilanci di tutti (il temuto effetto contagio).

L’Italia, nel 2015, ha ottenuto la concessione di una flessibilità (cioè concessione a fare più debito) pari a 30 miliardi: dovevano servire per attuare riforme e investimenti – non solo infrastrutture ma anche cultura, ricerca, scuola – ma sono stati spesi per le spese correnti.  La comune vulgata afferma che la ripresa è stata frenata dall’austerità imposta dall’Europa: è vero il contrario. Le scelte politiche alla ricerca del consenso ci hanno portato ad essere agli ultimi posti in Europa. E nell’immediato futuro pesano le clausole di stabilità, accettate a suo tempo dal governo Berlusconi, che nel 2020 equivalgono a 23 miliardi di euro. Né ci può essere di grande aiuto il fatto di avere, da anni, un consistente avanzo primario tra entrate e uscite: quelle somme vanno a finanziare gli interessi dell’enorme debito pubblico.

Achille Colombo Clerici Presidente di Europasia e di Assoedilizia

 

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