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Arbeit macht frei

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Rocco-Longodi Rocco Longo

IQ. 27/01/2013 – Arbeit macht frei

In fondo il principale motivo che mi aveva spinto a fare quel viaggio era tutto lì, in quelle tre parole, tetre e beffarde, in tedesco, la lingua che avevo imparato da piccolo e che avevo continuato ad amare anche da adulto: una proposizione semplice, priva di indugi retorici, icastica in tutta la sua dirompente verità, paradossalmente rassicurante, austera e sintatticamente autosufficiente. Meschina.

Una gelida scritta in ferro sovrastante il più angosciante ingresso che la storia dell’uomo mai ricordi, un’andatura sinuosa e curva quasi a voler incoraggiare l’avventore, un monito perequativo, un invito ad una speranza che si faceva certezza. In quel luogo sinistro.

Era l’otto gennaio del 1994. Era spaventosamente freddo. Era il rintocco di una campana sorda. Era il presentimento di uno stravolgimento.

Era dolore, già.

Oswiecim non aveva mai smesso di portare, fiera, il suo nome; Auschwitz era stata un’usurpazione insostenibile, un sopruso che la Germania le aveva perpretato, uno snaturamento che, malgrado tutto, non aveva –né mai avrebbe- intaccato lo spirito di una città, di un popolo, di una Nazione. Forse dell’intera umanità.

Oswiecim non aveva mai voluto quel nome straniero, e non lo aveva mai amato. Ed anche quello era il segno di un’offesa.

Era la neve, ovunque. E non era affatto una neve bianca che avrebbe fatto immaginare paesaggi algidi ed immacolati, silenzi concilianti, deliziosi contesti urbani esaltati dal suo manto avvolgente; no, era una neve dall’incomprensibile volto nero. Come le tenebre che, anche in pieno giorno, sembravano avvolgere quel posto, che sembrano avvolgere quel posto ancora oggi; era una neve sporca di rosso, il rosso del sangue che, con rivoli incontrollabili, aveva inondato e raggiunto anche gli angoli più nascosti di quella “fabbrica della morte”.

Non sarebbe stata una giornata facile, non sarebbe stato un tempo lieve.

Da Cracovia, per arrivare ad Oswiecim, si percorrono circa settanta km che attraversano una Polonia ruvida e rarefatta, proprio come l’aria che vi si respira, settanta km che tagliano campi sconfinati nei quali d’estate cresce il mais e si raccolgono le mele ma che, d’inverno, sembra quasi vogliano negarsi perfino alla luce. Alle nove del mattino di un giorno d’inizio gennaio avevo l’impressione, lungo l’intero tragitto, di solcare una landa lunare; ricordo ancora un dettaglio raggelante: per tutto il viaggio non incrociammo un’automobile che procedeva nel senso contrario al nostro, un presagio. Quasi.

La compagnia, talora ridanciana e distratta che mi circondava, procurandomi un malcelato fastidio, strideva con tutto ciò che era intorno e dentro di me ma, come d’incanto, bastò leggere la parola Oswiecim sul cartello d’ingresso perché tutto e tutti si ammutolissero. Eppure non c’era un copione predefinito, nessuno recitava a soggetto. Era come se la bacchetta, dopo aver ascoltato il silente la dell’oboe, avesse dato l’attacco: da quel momento in poi sarebbe stato un profluvio di emozioni lancinanti, di sensazioni devastanti, di disagio indescrivibile.

Era spaventosamente freddo.

Era dolore, già.

Oswiecim è il museo della morte. Un museo della morte grande una città intera, un museo della morte sin da quel ventisette gennaio del 1945 quando l’Armata Rossa le ridiede la dignità sottratta riconsegnandole la libertà che era stata vilipesa e l’umanità che era stata profanata.

Mai nulla, però, sarebbe più stato come in precedenza.

Ad Oswiecim si respira l’aria dell’Ade; prim’ancora di avvicinarsi, e per una sorta di terrificante metafora, sembra quasi di guadare le acque dell’Acheronte; era tutto così tremendamente gelido, perfino lo sguardo di un compagno di viaggio.

Gelido, incolore e terreo. Tutto!

Regnava incontrastato un silenzio innaturale che pareva provenire da un altro mondo: non rumori, non suoni; soltanto la voce calma e flebile di una guida che, da anni, continuava a ripetere –con immutato pathos e con impressionante partecipazione emotiva- la storia di un uomo che, in quel luogo, aveva completamente perso contezza di sé.

Erano fredde pure le parole, fredde ma fendenti come lame capaci di tagliare le pietre.

E l’oblìo.

Era freddo il cielo.

C’erano le nuvole, ed erano fredde anch’esse.

Una cancellata lugubre, benchè sapessi di doverla incontrare da un momento all’altro mi era apparsa all’improvviso, accoglieva una vista già considerevolmente provata dalla nudità di un luogo che non cercava giustificazioni e che non implorava ipocriti pietismi.

“Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente”.

Era come rivivere le scene del film uscito soltanto pochi mesi prima.

I passi sulla neve, un rumore sordo, il sibilo dei fucili che, in ossequio ad una tracotante routine, continuavano a sparare contro quel muro attraversando, quasi come per incidente, inermi corpi.

Volti rubati alla loro bellezza e corpi senza più forma.

Mani imploranti il perdono divino e corpi senza più forma.

Migliaia di volti. Migliaia di corpi senza più forma. Senza storia.

Comignoli che eruttavano ancora l’odore di una morte insensata.

Binari che trasportavano carichi umani costretti a spogliarsi di ogni sembianza umana.

“Juden”, un’onta.

Ed erano i corvi neri sui brulli rami di alberi senza più lacrime. Allora, nei giorni della folle attività così come ora, in questa modernità che voleva conoscere e che avrebbe soprattutto dovuto ricordare.

Era un presagio di morte che si sarebbe fatto obbligo di memoria.

E sarebbe stata memoria.

Sia memoria, per sempre.

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